Come sono organizzate le agende informative: tutto quello che i media non dicono – Andrea Garibaldi

Andrea Garibaldi, giornalista, socio fondatore della Fondazione Alessandra Bisceglia ViVa Ale Onlus

“Come sono organizzate le agende informative: tutto quello che i media non dicono”

“Vorrei ragionare con voi su alcuni “grandi vizi” dell’informazione italiana, che possono aiutarci ad approfondire il tema di questo pomeriggio. A capire perché le persone fragili sono scomparse dai media, schiacciate da Covid e guerra. Per la verità, non è che prima fossero così presenti.

I “grandi vizi” sono essenzialmente quattro.

Il primo lo chiamerei “gli eccessi”.

Quando c’è un grande evento, l’informazione si concentra su quello. Giustamente, ma in modo esagerato. Col Covid, con la guerra lontana da qui, la vita è continuata: il lavoro, i figli, gli anziani, la spesa, gli incidenti. E continuavano ad esistere i fragili, i malati di altre malattie, i poveri.

Certo, Covid e guerra sono due eventi enormi, forse i più importanti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma il fatto interessante è tutto italiano: il 21 luglio è caduto il governo Draghi e sono state fissate le elezioni al 25 settembre. Da quel momento -più o meno- sia il Covid, che era già in calo, sia la guerra in Ucraina, che ancora causa centinaia di morti al giorno, sono state spinte verso le ultime pagine dei giornali, verso la metà dei telegiornali e sul fondo delle schermate dei siti. Spazzati via dalle elezioni, dalle dichiarazioni dei politici, dai temi imposti dai politici, dalle interviste, dai confronti, dai sondaggi.

Ecco, un eccesso che scaccia due altri eccessi. Ma questo è l’eccesso che sui media italiani c’è tutti i giorni: pagine e pagine di politica, come in nessun altro Paese al mondo. Anzi, si può notare come solo due mega eventi, Covid e guerra, fossero riusciti a ridurre l’interesse quasi morboso di media tradizionali e tv per i palazzi del Potere.

Il secondo “grande vizio” lo chiamerei “le dimenticanze”. Dopo il primo choc, quando si cominciò a razionalizzare la pandemia, vennero alla luce le carenze del Servizio Sanitario Nazionale, che era stato, negli anni passati, un nostro fiore all’occhiello. Fu chiaro ed evidente che non eravamo pronti ad affrontare il Covid e fu chiaro ed evidente che negli ultimi anni il Servizio Sanitario pubblico era stato indebolito, pezzo dopo pezzo. I posti letto pubblici erano passati da 530mila nel 1981 a 200mila nel 2022. In alcuni casi è stato giusto chiudere alcuni ospedali, ma si sarebbe dovuto parallelamente investire nelle strutture territoriali e di comunità. Invece, spendiamo l’1,2 del Pil per l’assistenza domiciliare e territoriale, contro il 2,9 per cento della Germania. Alla sanità pubblica destiniamo il 6,5 per cento del Pil mentre Germania e Francia spendono il 9,5 per cento, abbiamo 58 infermieri ogni 10mila abitanti, Germania e Francia ne hanno il doppio. Avevamo 5000 letti in terapia intensiva, ne sarebbero stati necessari 10mila. Nel frattempo, sono aumentate, in alcuni casi raddoppiate, le spese per rimborsare la sanità privata. In Lombardia il 40 per cento della spesa sanitaria pubblica va a strutture private convenzionate, che sostituiscono cioè le strutture pubbliche.

E per parlare dei fragili: liste di attesa per le visite specialistiche di sei mesi/ un anno, calo delle diagnosi oncologiche del 20 per cento, hospice per i bambini non in tutte le Regioni, come invece prevedeva una legge del 2010. Per minori, anziani e disabili, l’Italia spende un terzo della media europea. E comunque a Vibo Valentia si spendono 6 euro a persona e a Bolzano 583 euro a persona. Le famiglie dei malati di Alzheimer, dei bimbi autistici, di chi è colpito da una malattia rara sono lasciate molto da sole.

Si disse, in pieno Covid: l’insegnamento ci servirà, va ricostruito il Servizio pubblico, non ricapiterà quello che sta capitando.

Al momento non sembra che questo stia succedendo. Aspettiamo i venti miliardi del Pnrr, che dovrebbero essere utilizzati per ospedali di comunità, case della salute territoriali, assunzioni di 33mila infermieri. Per la verità, intanto, si sente parlare di revisione dei piani del Pnrr. Chissà se l’intenzione è proprio di togliere miliardi alla Sanità.

È vero che i giornali devono dare notizie, ma è notizia anche una promessa non mantenuta, è notizia anche il controllo sulla riparazione di ciò che si è rivelato insufficiente. Ma il ripristino del Servizio Sanitario Nazionale, prima e durante la campagna elettorale, è assente anche dalle agende dei media.

A Roma, qui dove viviamo tutti noi, ma anche in tante altre parti d’Italia, la paura di stare male è aggravata dall’idea di doversi rivolgere a un pronto soccorso. Un collega, Vittorio Di Trapani, per molti anni segretario del sindacato dei giornalisti Rai, Usigrai, ha raccontato recentemente di aver passato 14 ore in attesa all’ospedale Sant’Andrea prima di essere visitato, controllato e curato, dopo un tamponamento in auto. “È un dovere -ha scritto- impedire che accadano cose del genere. Ma un’altra cosa ho voglia di dire: quanto dolore ho visto! Quanto dolore! Perché tutto questo dolore?!?!? Perché?!?!?!?”.

Fabio De Iaco, presidente della Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza, prima delle elezioni ha scritto un articolo così intitolato: “Caro candidato, per capire passi un giorno al pronto soccorso”. Diceva, fra l’altro: “Se si vuole conoscere la vera condizione di un Paese non esiste miglior punto di osservazione. È solo lì, caro candidato, che troverà l’esatta fotografia del reale: perché le necessità sociali ed economiche non soddisfatte diventano inesorabilmente necessità sanitarie. E il Pronto Soccorso le raccoglie tutte: famiglie che non possono più assistere i propri cari, adolescenti preda del disagio mentale, nel vuoto assoluto di cura e occasioni che questo Paese offre loro, stranieri che sopravvivono e spesso producono in un limbo di ignoranza e marginalità”. Non risulta che nessun candidato abbia ascoltato il consiglio.

Ecco, questo discorso introduce il terzo “grande vizio”: la mancata vigilanza dei media sulle esigenze di carattere collettivo. Qui gli esempi possono essere molteplici.

La tragedia del fiume Misa esondato nelle Marche: 2,5 miliardi stanziati nel 2018 per metterlo in sicurezza e spesi solo in piccola parte. Diciotto miliardi stanziati in Italia per il dissesto idrogeologico e non spesi.

In Italia si perdono due metri quadrati di suolo al secondo, terreno che viene coperto da asfalto. E l’asfalto è la causa della impermeabilizzazione, degli allagamenti e delle falde che l’acqua piovana non può alimentare e quindi delle coltivazioni che non si possono fare.

I media dovrebbero ricordare questi fatti, o meglio non fatti, periodicamente, quando si può fare qualcosa di positivo e non scrivere soltanto pagine indignate, mentre si contano le vittime.

Altro esempio, l’emergenza clima, di cui molto si tratta. Ma poi, crescono i consumi dopo il lockdown, scoppia la guerra in Ucraina e ricominciano gli investimenti sul carbone: le aziende dei combustibili fossili in tutto il mondo hanno già approvato enormi progetti per lo sfruttamento di nuovi giacimenti, che porteranno l’aumento delle temperature globali oltre tutti i limiti fissati dagli accordi internazionali. E i mezzi d’informazione accettano senza battere ciglio il tradimento di ogni buon proposito di transizione energetica. In nome di un interesse superiore, che di solito non è quello dei cittadini.

Oppure, altro esempio, l’aumento delle spese militari in Italia, a seguito sempre della guerra, per un miliardo e duecento milioni. Quanto basterebbe per costruire trenta nuovi ospedali. Ma queste connessioni raramente vengono fatte.

E siamo al quarto e ultimo “grande vizio”. Che li riassume un po’ tutti: le presunte priorità.

Per i media italiani la priorità delle priorità -come abbiamo già accennato- è la politica. Ma non la politica dove si confrontano idee diverse di società, le decisioni diverse su dove investire e come redistribuire i redditi. Piuttosto, il racconto dei mezzi d’informazione si concentra sulla lotta fra i partiti o meglio sulla lotta fra i leader, sulle alleanze che si fanno e si disfano, sulle tattiche molto più che sulle strategie.

Non sembra, invece, una priorità l’evasione fiscale: 100 miliardi di evasione l’anno, con i quali si coprirebbe l’intera spesa sanitaria.

Non sembrano una priorità il 23 per cento dei giovani fra 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione.

Non è una priorità che negli ultimi 50 anni abbiamo perso 40 milioni di metri quadrati di spiagge, che le spiagge italiane sono occupate per il 43 per cento da stabilimenti balneari, che i proprietari di questi stabilimenti si oppongono con ferocia ogni qualvolta qualcuno (l’ultimo è stato Mario Draghi) cerchi di regolare i canoni ridicoli che pagano allo Stato per occupare il pubblico demanio.

Non è una priorità che fra il 2014 e il 2020 l’Italia è stata capace di spendere solo 17,3 miliardi sui 75,2 miliardi che l’Europa ci ha dato per fare strade, scuole, fibra ottica, sostegno al Mezzogiorno.

Non è una priorità che in Italia il 36 per cento dell’acqua immessa nei nostri acquedotti si disperde, si butta via a causa del degrado degli acquedotti stessi. Però si grida ai danni della siccità, al disastro dell’economia lungo il Po.

Certo, dove ho letto tutti questi dati? Sui mezzi d’informazione. Ma una cosa sono articoli en passant, altra cosa è insistere, scavare, bussare alle porte dei responsabili finché le questioni non vengano affrontate davvero.

Non sono priorità i problemi che riguardano le persone fragili. Esempio: 67 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno (furono 57 in tutto il 2021). Alcuni dei detenuti che si sono tolti la vita erano lì da pochi giorni, uno aveva rubato un telefonino, uno aveva oltraggiato un pubblico ufficiale, un altro aveva fatto una rapina in un supermercato. In carcere si tolgono la vita 11 persone ogni diecimila, fra i cosiddetti “liberi” 0,7 persone ogni diecimila.

Tutte le persone fragili sicuramente diventano più fragili in crisi eccezionali come la pandemia e la guerra, ma anche in tempi “normali” sono sempre e comunque relegate in nicchie di informazione. Appaiono quando chi è in grado di gridare per loro -associazioni, parenti- riesce a raggiungere le agende dei media.

L’ipotesi di tutto questo discorso è dunque che questa indifferenza è un problema strutturale e non legato alle ultime due situazioni che abbiamo vissuto. Con lodevolissime eccezioni, che abbiamo ascoltato qui e che continueremo ad ascoltare.

Vorrei concludere con una piccola postilla. Ho esaminato il comportamento dei mezzi di informazione tradizionale. Ma che dire dei nuovi mezzi di informazione? Intendiamo quelli che sono nati sull’online e non sono mai stati di carta (Fanpage, Open, Huffington Post) e quelli che navigano all’interno dei social network rispettando alcune delle regole del giornalismo (Will_Ita, Factanza, Torcha)?

Riguardo ai grandi vizi di cui abbiamo parlato, direi che questi nuovi mezzi ne evitano due e condividono gli altri due. Sono senz’altro meno sensibili al primo e quarto vizio. Quindi, meno eccessi, non smontano tutto per immersioni globali in eventi come il Covid e la guerra. Questo anche per l’esigenza di mantenere quote di intrattenimento. Quindi, meno presunte priorità. La loro offerta informativa -parliamo in generale- indirizza meno il lettore di quanto facciano i media tradizionali. L’idea -specie nell’informazione sui social- è quella di un grande supermercato con scaffali dai quali ciascuno prende il prodotto (la notizia, il servizio, l’approfondimento) che desidera.

Sulle dimenticanze e sulla mancata vigilanza invece i vizi si perpetuano, talvolta si amplificano, visto che qui più che nei mezzi tradizionali contano la velocità, l’immediatezza, la freschezza, il bisogno di tener desta l’attenzione con fatti sempre nuovi.

Infine, vi prego di credermi: non ho voluto dare lezioni, né pagelle, solo invitare la platea alla riflessione”.