Verso l’armonia #2 E se cominciassimo da un abbraccio?

Ben ritrovati con il nostro secondo appuntamento con la rubrica “Verso l’Armonia…”

Oggi parleremo di abbracci! Si, proprio di abbracci… ma non di uno qualunque.

Avete presente quegli abbracci in cui vi sentite finalmente accolti, compresi, contenuti? Quelli in cui sentite di potervi abbandonare per affidarvi all’altro? Quelli in cui ricaricate le vostre energie e il vostro coraggio o quelli in cui vi sentite liberi?

Ecco! Tenete a mente queste sensazioni, perché sono le stesse che si dovrebbero sperimentare mentre si riceve una diagnosi. Quando si riceve una diagnosi qualsiasi si entra, molto spesso, in una nuova consapevolezza: quella per cui sarà necessario affrontare, da quel momento in avanti, cambiamenti per poter fronteggiare la nuova situazione. Potrebbe trattarsi di cambiamenti semplici o più complessi, ma ogni cambiamento ha un costo e richiede un riadattamento. Senza contare il fatto che i cambiamenti, anche se piccoli, spesso fanno molta paura.

Portiamo tutto questo su un paziente che ha appena ricevuto una diagnosi di malattia rara: l’impatto di una simile notizia – sul paziente stesso, come sui suoi familiari – crea un vero e proprio sconvolgimento emotivo. Avere una malattia rara significa convivere per il resto della propria esistenza con qualcosa che in pochi conoscono, che pochissimi comprendono e che quasi nessuno sa come affrontare. Il cambiamento e il riadattamento richiesti alla persona e a chi le sta attorno sono di un’entità tale da creare paura, smarrimento e confusione. E di cosa ha bisogno una persona che si trova in questo stato emotivo? Semplice! Di un abbraccio: uno di quelli caldi e accoglienti di cui si parlava prima.

Nel nostro caso, l’abbraccio di cui parliamo non è fisico, ma sta nel modo di comunicare di chi sta spiegando al paziente cosa sta succedendo nella sua vita.

La comunicazione della diagnosi, da parte del medico specialista è il primo, vero atto terapeutico fatto dal medico che prende in carico un paziente. Se fatta nel modo più funzionale ha il potere di rassicurare, spazzare via ansie e paure e motivare al trattamento, anche se questo sarà lungo e costoso (in termini economici, psicologici e sociali). Ma cosa si intende per “modo funzionale”?

Alla base di tutto, come si intuisce, c’è il modo di comunicare, verbale e non verbale del medico: a livello non verbale, tutto quanto dello specialista, dalla postura del corpo, ai gesti, fino allo sguardo, deve far capire al paziente che non è e che non sarà solo in questo viaggio, che c’è un professionista che non ha paura di mettersi in gioco e che si occuperà di guidarlo in tutte le fasi del percorso futuro. Anche le parole giocano un ruolo fondamentale: devono essere semplici, comprensibili da chi non è esperto del problema, ma soprattutto devono essere chiare.

La comunicazione della diagnosi dovrebbe basarsi sull’empatia e sull’interesse verso la persona nella sua totalità, come essere umano, che ha emozioni e aspettative, non solo sui sintomi e sulla malattia da curare.

La spiegazione di ciò che la patologia comporta, di quel che avverà o potrebbe accadere nel futuro, di ciò che si può fare dovrebbe essere caratterizzata da estrema chiarezza e sincerità. Durante questa fase fondamentale che dà il via alla presa in carico e al percorso terapeutico, il paziente deve sentire che il medico è lì per lui e che quel tempo è dedicato completamente a lui, ai suoi dubbi, alle sue resistenze e alle sue paure. Avere fretta mentre si comunica una diagnosi lancia al paziente il messaggio che il medico ha cose più importanti da fare che pensare alla sua situazione e al suo problema: questo modo di fare ostacola l’instaurarsi di un rapporto basato sulla stima e sulla fiducia, che è invece fondamentale per permettere alla persona di aderire al trattamento proposto.

Infine, è necessario trovare un equilibrio tra la sincerità e la speranza: quest’ultima deve sempre essere trasmessa al paziente, che deve potersi sentire ancora autoefficace sulla propria vita. Senza la speranza si rischia che la persona scivoli in uno stato di impotenza che porta alla resa. Non vuol dire mentire, ma, tenendo fede alla sincerità e alla chiarezza, significa porre l’attenzione su ciò che è possibile fare, sui punti di forza e sull’alleanza tra medico e paziente.

Per concludere, comunicare la diagnosi dovrebbe essere come un abbraccio in cui il paziente può abbandonarsi, con dubbi e paure, lacrime e rabbia, per poi affidarsi e ricaricarsi di energia per affrontare ciò che la malattia avrà in serbo per il futuro.

Riascoltiamo insieme le parole della psicologa e psicoterapeuta, Francesca Malatacca

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