ANGIODISPLASIE IERI – OGGI – DOMANI

Dal convegno: “Affrontare le anomalie vascolari: ieri-oggi-domani

Di Massimo Vaghi

L’ inizio della conoscenza è chiamare le cose col loro nome. Possiamo definire che l’inizio moderno della conoscenza della angiodisplasie si rifà a questo libro del 1974, che è il primo che affronta il problema delle angiodisplasie da un punto di vista anatomopatologico, oltre che da un punto di vista angiografico. Il professor Malan ha sostenuto in questo libro che bisognava superare il concetto degli eponimi, per quanto riguarda le angiodisplasie e parlare soltanto in senso di fisiopatologia, perché ci può essere una clinica uguale per manifestazioni di tipo vascolare diverso. Andiamo nel 1982, in cui viene definita per la prima volta in letteratura la suddivisione fra emangiomi e malformazioni vascolari congenite, definendo gli angiomi una patologia di tipo tumorale endopediale con crescita particolare, mentre le malformazioni vascolari hanno una base embriologica di tipo disoncogenetico. Nel 1988 ad Amburgo il professor Belof presenta la sua classificazione solo delle malformazioni vascolari, che si basa su un principio di tipo anatomopatologico: ovvero le malformazioni vengono definite dal vaso in cui sono interessate, quindi arteriose, venose e linfatiche e a seconda dell’età embriologica in cui è comparsa la malformazione di tipo tronculare, che riguarda i tronchi principali e gli arti e degli organi oppure  di tipo extra tronculari, che sono quelle forme infiltranti di vari tessuti. Nel 1996 il professor Stillo organizza qui a Roma un congresso della International Society for the Study of Vascular Anomalies (ISSVA), che è nata nel 1990 e che è la società per lo studio internazionale delle anomalie vascolari. Ci ritroviamo alla prima classificazione dell’ISSVA, la quale si differenzia fondamentalmente da quella di Amburgo, perché compaiono gli angiomi, gli angiomi nelle loro varie determinazioni, per cui se originariamente l’ISSVA era un’associazione di chirurghi e di radiologi attualmente entrano a buon titolo anche i dermatologi. Arriviamo all’anno 1998 in cui si hanno le prime pubblicazioni sulla genetica e malformazioni vascolari congenite. Questo lavoro era stato presentato al congresso di Berlino dal genetisa Miikka Vikkula: più o meno lo avevamo preso tutti in giro noi clinici, perché non sapevamo che cosa farci della genetica, non ci aiutava nella vita di tutti i giorni ed era filosofia applicata alla medicina. Arriviamo, facciamo un salto, al 2014 con la seconda classificazione dell’ISSVA, molto più complicata, che riguarda sia gli emangiomi che le malformazioni vascolari … e questa la definirei come una classificazione di tipo ibrido, perché oltre all’anatomia patologica e oltre al rientro delle sindromi che avevamo perso fino al 2014, abbiamo l’entrata della genetica, per cui abbiamo stabilito che determinati tipi di malformazioni si possono definire anche per la genetica e non soltanto per l’anatomia patologica e in più la stessa anomalia genetica può essere presente in diverse malattie. Abbiamo detto che nel 1990 nasce ISSVA e adesso ritorniamo al 1992: fino al 1992 l’unica terapia degli emangiomi era il cortisone, che potevamo darlo sia per via sistemica che per via locale; però il professor Judah Folkman di Boston aveva cominciato a studiare l’angiogenesi soprattutto per scopi antineoplastici e in questo ha incontrato le malformazioni e gli angiomi, e questo direi che sia il primo report di una terapia antiangiogenetica di un angioma molto importante. Abbiamo definito nel 1992 che la mutazione 2alfa era molto importante per la terapia degli angiomi, poi abbiamo scoperto che dava dei problemi di tipo neurologico, per cui nel 96-97 la sbornia da interferone è cambiata; è stata tolta però resta il primo esempio di terapia antiangio genetica. Torniamo un attimo al 2006. Organizziamo il congresso a Milano, sempre dell’ISSVA. Dal 2006 ad oggi con le linee guida abbiamo meditato sulla nostra attività e sulle terapie che fondamentalmente sono ancora uguali a quelle degli anni 80, quindi, la devascolarizzazione che può essere di tipo chirurgico o endovascolare. Questa fondamentalmente è la terapia delle angiodisplasie e questo lavoro di un gruppo di Seul è stato il primo a dare delle sub classificazioni e a dare un’indicazione alla terapia, in questo caso delle malformazioni arterovenose. Ci sono stati dei lavori su quelle venose, sulla sclero terapia di quelle venose , ma fondamentalmente questi anni sono serviti a creare consenso, per rivedere l’esperienza che abbiamo fatto sia da un punto di vista diagnostico (negli anni 80 sono iniziate la tac, la risonanza con ecodoppler) che da un punto di vita tecnologico, ma nulla di nuovo. Nell’universo delle angiodisplasie diciamo in questi 50 anni fondamentalmente è cambiato poco tranne per la genetica. Nel 2008, questo per quanto riguarda gli emangiomi, abbiamo questa scoperta dell’utilizzo dei beta bloccanti negli angiomi dal gruppo di Bordeaux e anche questo è stato un passo decisivo, perché gli angiomi si trattavano col laser, con la crioterapia ai tempi, col cortisone e questo è stato un grosso passo per tutti i dermatologi e per il trattamento degli emangiomi. Nel 2012 nasce la Sisav e veniamo alla mia esperienza, questa esperienza nasce in sala operatoria nel 2017, verso marzo-aprile, dove c’è questa ragazza che mi chiede di essere amputata, perché onestamente quell’arto non era funzionale e le dava fastidio, quindi ho pensato di chiamare un collega di Torino e fare un prelievo dei tessuti dell’arto amputato per fare successivamente un’indagine genetica. Nel 2019 lavoravo all’ospedale di Crema, il professor De Stefano è venuto e ho organizzato questo congresso sulla circolazione caotica ed è venuta anche la professoressa Renieri con cui collaboravo da anni e così a pranzo e accompagnandola in questa bella stazione abbiamo parlato di biopsie liquide nei tumori … e ho detto in fondo in fondo anche le malformazioni vascolari hanno un problema di tipo endoteliale, probabilmente si trova qualcosa sulla biopsia liquida, probabilmente il turn over delle cellule è inferiore rispetto a quello di una neoplasia, per cui la biopsia è andare a prendere il sangue più vicino possibile ad una malformazione. E direi che il primo caso su una fistola arteriovenosa: abbiamo fatto un prelievo per la vena efferente, per fortuna è risultato positivo. Nello stesso paziente abbiamo fatto un prelievo periferico in cui si è notato un gradiente, in questo caso di un gene legato al KRALS, dimostrando che il Krals veniva proprio dalla malformazione. Tornando al caso di prima, amputato, dopo diciamo 4 anni, il collega di Torino ha fatto le analisi genetiche, in quel tempo avevo anche prelevato del sangue periferico che è rimasto congelato e ho ripetuto l’analisi, ho trovato sia nei tessuti che nel sangue il gene mutato tipico del Klippel-Trenaunay. Quindi, diciamo che in questi 50 anni abbiamo tracciato da un punto di vista della conoscenza generale delle malformazioni un cerchio abbastanza importante. La sindrome di Klippel-Trenaunay esiste, probabilmente non dovremmo più chiamarla così, ma all’interno di quelle che si chiamano sindromi pros, che i vasi non sono responsabili di tutto ma esiste questo tipo di anomalia e che lo studio in questi anni è andato dal macroscopico, al microscopico, alle nanotecnologie e penso che le nanotecnologie abbiano ancora spazio per raccontarci qualcosa di importante. Le prospettive sono quelle di una terapia target rispetto alle anomalie genetiche che riscontriamo. Questo è uno studio fatto a Marsiglia su 35 pazienti che hanno ottenuto dei risultati notevoli e questi studi hanno portato FDA a riconoscere l’utilizzo di questo farmaco per questo tipo di sindrome. Vediamo un attimo che cosa succederà in Italia perché sono 14.000 euro al mese di terapia e non si sa per quanto. La terapia mirata ha dei problemi attualmente, e ne conosciamo non pochi, se deve essere fatta a vita. Può essere una terapia adiuvante? Adiuvante con le devascolarizzazioni? Sono tutte domande attuali che non hanno risposta.  Grosso problema è la cura delle angiodisplasie in Italia, perché i medici sono pochi, abbiamo tutti una certa età e non si vede quale sia il futuro, anche perché fondamentalmente dovrebbe essere un qualcosa degli ospedali universitari, perché ho dimostrato che di ricerca ce n’è e se ne può fare tanta, mentre gli ospedali periferici, dove purtroppo lavoro, fanno molta fatica a svolgere questo lavoro in più rispetto a quello a cui sono deputati.

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