Intervista a Rita Pinci

Rita Pinci, giornalista, lavora a Tv2000. Ha iniziato come corrispondente del quotidiano Il Messaggero, di cui è stata redattore-capo centrale e vicedirettore. Successivamente è stata direttore di Specchio, il magazine de La Stampa, e vicedirettore dei settimanali Panorama e Chi. Ha lavorato per Huffington Post Italia e collaborato come autore alla trasmissione In mezz’ora su Rai 3.
Come giurata del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia risponde ad alcune domande.

Il PGAB si rivolge a giornalisti giovani legati in qualche modo all’Ordine dei giornalisti, non è una scelta in controtendenza ai tempi dell’informazione partecipata?
Per certi versi sì. Personalmente guardo con favore alle de-istituzionalizzazione del giornalismo; per me sono giornalisti anche quelli che senza un tesserino in tasca partono (e spesso a proprie spese), vedono, si documentano, cercando di svincolarsi dalle fonti ufficiali, e raccontano bene. E spesso lo scrivono non su un media appartenente ad altri, ma sul proprio; vedi il fenomeno blog. Sono per la liberalizzazione della professione: ritengo l’Ordine dei giornalisti un istituto desueto. Giornalista è chi giornalista fa, direbbe Forrest Gump.

Come definire il giornalismo partecipativo e come dovrebbe rapportarsi un buon giornalista a questo fenomeno?
Viviamo un tempo delicato ma anche stimolante per quanto riguarda il rapporto tra informazione e comunità. Le tecnologie, che hanno modificato i concetti comunicativi di tempo e spazio, hanno fatto avanzare nuovi mass media che sono di per sé comunitari e richiedono partecipazione attiva dei lettori. Il citizen journalism è una realtà. Ci sono rischi, ma per me sempre meglio del giornalismo impaludato che diventa gabbia.
Il senso di comunità abbandonato dai giornali viene rimpiazzato con le nuove comunità dei social media, da facebook, twitter, instagram.. E’ qui che c’è il vero rischio, perché queste comunità non nascono intorno a un sistema di valori condivisi; spesso sono fittizie, loro stesse sono fake news.
I followers si possono comprare a pacchetti. Bastano poche centinaia di euro per acquistarne migliaia; poi vai a vedere chi sono, apri i loro profili e scopri che moltissimi sono “persone” che hanno twittato una sola volta, che hanno poche decine di followers… Capita che queste “persone” tutte insieme, d’improvviso, decidano di seguire un certo personaggio, una certa trasmissione televisiva, un esponente politico facendone “trend topic”. Non sono persone reali, ma semplici account.
Purtroppo l’aspirazione a diventare “influencer”, spesso solo per vanità, fa commettere il falso anche ad alcuni giornalisti, che dalla sera alla mattina squadernano migliaia di followers.
Un buon giornalista si mantiene tale se segue due linee guida che personalmente ritengo basilari: 1) fornisce una informazione di servizio e corretta; 2) punta a una informazione che “comunica con” e non “comunica a”.

Il mondo dei social e dei Blog ha portato un miglioramento dell’offerta giornalistica o ne ha abbassato il livello qualitativo e la credibilità?
Sicuramente ha aumentato l’offerta, ma per molti qualità e credibilità corrono rischi. Per me non è del tutto così. E’ vero, tanti dei guai attuali del giornalismo (mancata verifica, fake news, etc. etc.) possono dipendere anche da internet e dai social media. Ma non è il mezzo che fa guai. Nella molteplicità di mezzi a disposizione, il punto dirimente, per me, è il come. E il come comincia con la correttezza.

Comunicazione sociale: è un argomento “cenerentola” sulle testate italiane perché non fa notizia o perché non viene trattato in modo corretto?
Per me la Comunicazione è di per sé sociale, se intendiamo che deve essere utile e avere finalità collettive. Poi ci può, ci deve, essere un modo diverso di trattare argomenti diversi.

Il peso e l’importanza delle parole: in un articolo di comunicazione sociale, come quelli raccolti dal PGAB, si scelgono e sono già scelte dal contesto?
Personalmente ritengo che le notizie, giornalisticamente parlando, non si differenzino in base al contenuto. Ma dallo sguardo e dal linguaggio che si usano nel raccontarle.
La differenza va fatta tra buona o cattiva comunicazione. Il risultato dipende da come ci si prepara, come ci si documenta come si lavora per acquisire le notizie, come si controllano le fonti, come si raccontano le cose sapute e/o viste.

Che impressione ha raccolto in questi anni da Giurato delle nuove leve del giornalismo italiano? E’ vero che è in crisi? O sta solo cambiando pelle?
Il brutto è che il mondo è sempre più spesso raccontato con quello che arriva nei computer. Il guaio per le nuove leve è che gli editori (per risparmiare), i capi (per fare in fretta) dicono: ma dove, cosa vuoi andare a vedere, hai tutto su internet, prendi da lì…
Per questo torno alla prima domanda: è più giornalista chi sta, assunto in un giornale, a rimpastare agenzie e notizie prese dal web o chi esce, vede e poi racconta usando il media che ha disponibile, a cui ha accesso, ma con correttezza?