1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?
Ho incontrato Raffaele Capperi, protagonista del mio racconto, a Gennaio 2024 alla presentazione del film Wonder-White Bird con Helen Mirren. Dopo aver ascoltato la sua storia e le difficoltà legate alla sua malattia, sono rimasto colpito dalla forza e dal garbo con cui Raffaele ha trovato la voglia di vivere nonostante tutto. Mi sono detto che era una lezione importante, che dovevano ascoltare anche altri. Dunque, quale migliore occasione di questa per parlarne, per dimostrare che le malattie rare non sono solo statistiche: dietro a quei numeri ci sono volti, sogni, famiglie che combattono ogni giorno. Partecipare a questo premio per me significa dare dignità e visibilità a queste storie.
2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?
Il racconto che ho presentato a questo concorso risponde esattamente a questa domanda alla perfezione. Raffaele sin da bambino ha subito giudizi e violenze legate all’ignoranza e alla superficialità di persone che non conoscevano la sua malattia. Persone che erano impressionate dal suo aspetto fisico e che non si domandavano quale fosse il vissuto. Il suo modo di reagire è stato quello di condividere sui social e nelle scuole la sua esperienza per informare ed educare. Le storie vere hanno una potenza che i dati da soli non hanno: fanno leva sull’empatia. Quando racconti il viaggio di una madre che lotta per trovare una cura per suo figlio, o di un ragazzo che convive con una diagnosi devastante, non stai solo informando, stai coinvolgendo. Le persone si riconoscono nelle emozioni e questo può cambiare il modo in cui vedono una causa, spingendole all’azione o almeno a riflettere.
3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?
Credo che dare voce a chi non ce l’ha sia una delle più grandi responsabilità e, al tempo stesso, uno degli atti più autentici nel campo della comunicazione sociale. Non si tratta solo di raccontare storie: si tratta di scegliere quali storie meritano di essere ascoltate, anche quando vengono da chi normalmente resta ai margini del discorso pubblico. La sfida è raccontare senza sovrascrivere, rappresentare senza semplificare, dare spazio senza appropriarsi. È un equilibrio sottile, che richiede tatto, empatia e una profonda comprensione del contesto in cui ci si muove. Quando si riesce a farlo con onestà, ciò che si restituisce non è solo visibilità a una voce silenziata, ma anche umanità al nostro stesso mestiere. Perché il senso della comunicazione sociale non è solo informare, ma anche connettere, sensibilizzare e, in qualche misura, contribuire al cambiamento.
4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?
Se le testate si limitano a intrattenere o a inseguire il flusso della cronaca senza proporre chiavi di lettura, tradiscono una parte essenziale della loro missione. Educare, in questo senso, non significa fare lezioni, ma offrire strumenti per comprendere la complessità della realtà. I lettori riconoscono e apprezzano questo valore: lo dimostrano quando scelgono contenuti che li arricchiscono, che fanno emergere nuove prospettive o che li spingono a riflettere.
5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?
La chiave sta nel rispetto. Raccontare temi delicati richiede attenzione: non solo verso chi legge, ma anche, e soprattutto, verso chi è coinvolto nella storia. Il sensazionalismo rischia di spettacolarizzare il dolore e ridurre la complessità a una reazione emotiva superficiale. L’obiettivo dev’essere quello di far parlare i fatti, di lasciare spazio alle testimonianze autentiche, senza manipolarle. Non è necessario esagerare se si racconta la verità con onestà: le storie forti parlano da sole, se trattate con cura. Mantenere questo equilibrio significa mettere al centro la dignità delle persone e restituire fiducia al pubblico. Perché, in fondo, non c’è niente di più potente di una verità raccontata bene.
6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?
Una delle sfide più grandi è conquistare la fiducia di chi quelle storie le vive sulla propria pelle. C’è il timore di essere fraintesi o usati per costruire un racconto ad effetto. Per questo, prima di scrivere, bisogna saper ascoltare. Entrare in punta di piedi nelle vite degli altri, con rispetto e umiltà, è un passaggio imprescindibile. È lì che si gioca la credibilità di chi racconta. Un’altra sfida importante è quella di trovare spazio a queste storie in un panorama mediatico spesso dominato da logiche commerciali e “contenuti che performano”. Le tematiche sociali, per loro natura, richiedono tempo, profondità e contesto – tutte cose che mal si sposano con la fretta e con l’informazione usa e getta.
7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?
I social hanno reso la comunicazione più accessibile, più orizzontale, e se usati con consapevolezza possono alimentare una nuova forma di attivismo narrativo, dove chi vive una realtà diventa anche narratore, non solo oggetto del racconto. Da un lato, rappresentano dunque una grande opportunità perché permettono di dare visibilità e rompere il silenzio su argomenti scomodi. Dall’altro lato, però, pongono sfide enormi perché l’ossessione per la viralità può spingere alla semplificazione o, peggio, verso il sensazionalismo.
Il punto è che i social non sono né buoni né cattivi in sé: dipende da come li si usa.
8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?
Raccontare questo genere di temi richiede una comprensione profonda dei contesti, dei linguaggi e delle implicazioni etiche. Senza questo bagaglio, si rischia di cadere in semplificazioni, stereotipi o, peggio, in errori. Aggiornarsi significa non solo affinare le competenze tecniche, ma anche restare sintonizzati con le trasformazioni culturali, sociali e persino linguistiche. Vuol dire imparare a riconoscere i propri bias, interrogarsi sul proprio punto di vista e su come questo possa influenzare il racconto.
La formazione, insomma, non serve solo a “saperne di più”, ma anche a raccontare meglio.
9. Come é venuto a conoscenza del Premio giornalistico?
Ne sono venuto a conoscenza grazie al Master in Giornalismo che frequento presso l’Università IULM.