Intervista a Elisa Marasca

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?
Da più di 10 anni, cioè dal primo anno della Scuola di Giornalismo, seguo e racconto temi legati alla salute pubblica e all’equità nell’accesso alle cure, soprattutto per chi ha malattie “invisibili”. Partecipare a questo premio è stato un modo naturale per dare spazio a un ambito che considero centrale nel giornalismo sociale.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?
Le storie ben raccontate hanno un impatto più forte di qualsiasi dato. Non perché siano emotive, ma perché rendono visibili meccanismi sociali complessi, senza filtri. Offrono un punto di accesso umano a temi spesso trattati in modo astratto o burocratico. Un conto è leggere astrattamente della ricerca su una determinata malattia, un altro è farsi raccontare la vita di tutti i giorni da chi soffre o da chi si occupa delle cure, sia da punto
di vista medico sia da caregiver.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?
Dare voce non è un atto caritatevole, è una responsabilità. Chi fa informazione ha il compito di portare alla luce esperienze che altrimenti resterebbero invisibili. Il punto non è parlare per le altre persone, ma creare le condizioni per cui possano raccontarsi con le proprie parole.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?
Certo, il giornalismo ha il dovere di fornire strumenti (e il linguaggio giusto) per orientarsi nella realtà. Questo vale soprattutto per i temi sociali, che spesso vengono trattati in modo marginale o superficiale. Perché sono le parole che plasmano la realtà.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?
Facendo bene il proprio lavoro: verificare, ascoltare, restituire i contesti. Il sensazionalismo nasce spesso dalla fretta o dalla volontà di semplificare. L’oggettività non è neutralità, è rigore. Serve tempo, studio e rispetto per le persone. Usare aggettivi sensazionalistici non porta niente di più al racconto, come spiegano molto bene tutte le carte di deontologia professionale che abbiamo in Italia.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?
La più grande è ottenere attenzione per questi temi senza piegarsi a logiche economiche (per esempio aziende farmaceutiche che vogliono essere nominate per un determinato farmaco).

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?
Sono un canale, uno strumento, non un fine. Possono aiutare a far circolare contenuti importanti, ma non sempre sono adatti a contenuti complessi. Il rischio è adattare il giornalismo al linguaggio dei social, perdendo profondità. Bisogna saperli usare senza subirli.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?
Sono essenziali. Non basta la sensibilità personale: serve competenza. Chi scrive di salute, disabilità, marginalità, deve conoscere leggi, dati, approcci specialistici. Ma deve anche aggiornarsi sul linguaggio, sugli stereotipi, sull’etica del racconto.

9. Come è venuta a conoscenza del Premio giornalistico?
Attraverso la newsletter di Cristiana Bedei.