1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?
Qualche mese fa mi sono laureata e ho concluso il mio percorso di laurea magistrale in “Comunicazione giornalistica politica e sociale”. Ho scritto una tesi incentrata proprio sul tema del giornalismo sociale che è anche l’ambito giornalistico che più mi appassiona. Perché? Perché credo che esprima nella maniera più sincera il dovere civico sotteso alla professione. È portare luce su quei temi che altrimenti sarebbero dimenticati ed è dare voce a chi non ha mai avuto voce. Questo, per me, è il significato di partecipare a questo Premio, una delle tante vie attraverso cui poter dare concretezza a questi valori.
2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?
Ritengo che le storie individuali, di vita, personali, possano avvicinare le persone, creano ponti con tematiche, realtà, esperienza di vita che altrimenti rimarrebbero lontane e inconoscibili. Hanno il potere di creare simpatia, ma nell’accezione greca del termine (sympatheia) quindi, letteralmente, soffrire insieme, condividere un sentimento e, attraverso questo, promuovere un cambiamento che sia prima di tutto concreto e aderente alle reali esigenze delle persone coinvolte. Le piccole storie hanno quindi il potere di mostrare che, in definitiva, si fa tutti parte di un’unica grande storia e che i problemi e le tematiche sociali che appaiono come qualcosa di microscopico siano in realtà qualcosa di intersezionale che, in maniera diversa, ci riguarda tutti.
3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?
Come dicevo, ho recentemente scritto una tesi di laurea magistrale intitolata proprio: “Il Giornalismo Sociale, la voce di chi non ha voce. L’editoria sommersa del giornalismo sociale contemporaneo”. Tra le altre, ho provato a rispondere proprio a questa domanda.
Prima di tutto, risponderei partendo da una discrasia che esiste nel mondo della comunicazione giornalistica, ovvero l’opposizione tra quella che è la prassi, il framing utilizzato abitualmente dai media, e quella che, invece, è la teoria, il framing che sarebbe necessario adottare nella pratica giornalistica. Quello che si delinea è una marcata dipendenza alla dimensione della politica e dell’economia, in generale ai cosiddetti poteri forti presenti nella società. Questo porta con sé l’appiattimento del dibattito pubblico e la riduzione della pluralità di voci e prospettive presenti nella società. Tale visione suggerisce, dunque, un forte squilibrio tra la realtà oggettiva e il controllo che viene operato dal framing sulle informazioni e le narrazioni dei media e, al contempo, una percezione di sudditanza del giornalismo nei confronti delle diverse forme di potere consolidato.
La diretta conseguenza è che il racconto che viene fatto dei temi sociali non avviene quasi mai attraverso le voci di chi vive sulla propria pelle tali problematiche. Il racconto dei fatti attraverso il punto di vista di chi lo vive in prima persona dovrebbe essere un principio classico del giornalismo, invece, quando si parla di temi e problematiche sociali questo meccanismo è assente o è presente in maniera residuale. Il risultato è che, nella maggior parte dei casi, le voci delle persone che vivono queste problematiche vengono sovradeterminate e travisate. Per questo, la soluzione credo possa essere quella di parlare di questi problemi attraverso la voce di chi li vive tutti i giorni sulla propria pelle. L’osservatorio privilegiato deve essere quello: le persone. Le persone che, per condizione di vita o per scelta lavorativa, vivono quelle dinamiche e problematiche in maniera diretta, senza intermediazione.
Oltre a evidenziare l’importanza di un racconto che parta dalle persone, di un framing “dal basso” contrapposto a quello dei media mainstream incentrato su narrative già confezionate, porta con sé anche la possibilità di aprire nuovi spazi di rappresentazione per soggetti spesso marginalizzati, offrendo loro un’importante occasione di socializzazione. Il giornalismo, infatti, può e deve cercare fonti di informazione diverse e creare un contesto in cui le esperienze personali possano emergere, così da rendere l’informazione quanto più inclusiva e specchio realistico della complessità.
Dunque, dare voce a chi non ha voce, il senso giornalismo sociale è quello di riuscire ad andare oltre le narrative dominanti dei media mainstream, spesso influenzate da interessi istituzionali o da un approccio pietistico verso il sociale, per proporre un framing che sappia rispecchiare la pluralità di quelle voci, esperienze e prospettive spesso marginalizzate e distorte. Per farlo, la soluzione è quella di partire “dal basso”, di offrire una prospettiva che dia centralità alle testimonianze in prima persona e renda protagoniste le voci di chi vive sulla propria pelle determinate condizioni di difficoltà sociali per riuscire così a creare, in ultima istanza, uno spazio di rappresentazione inclusivo e un’informazione che sia, prima di tutto, al servizio del cambiamento sociale.
4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?
Oggi ha senso parlare di giornalismo sociale e forse ne ha ancora di più rispetto che in passato perché la sua responsabilità non è più soltanto dare voce a chi non ha voce come fatto in passato, ma farlo con una nuova consapevolezza: che queste voci dimenticate, sono quelle che possono illuminare con più verità i problemi che oggi esistono nel mondo ed esserne anticipatrici perché in grado di mostrare come tutti quei temi e problemi sociali percepiti come microscopici e isolati, nel mondo interconnesso di oggi siano in realtà diventati intersezionali e facciano parte di un quadro macroscopico che riguarda tutti. Questo è il motivo per cui servirebbe operare una sua diffusione e una sua rivalutazione: per essere imparziali ma non indifferenti, dando spazio a voci capaci di promuovere un cambiamento che sia prima di tutto culturale. Questa è la sfida, e la grande responsabilità che ha oggi il giornalismo sociale contemporaneo, e la sua unica possibilità di recuperare quel ruolo di gatekeeper dell’informazione che sembrava sfumata con l’avvento del digitale. Perché un pubblico consapevole ed educato su queste tematiche vuol dire diffondere rispetto e solidarietà verso chi vive una determinata problematica sociale. E vuol dire anche, in ultima istanza, combattere la passività e l’indifferenza dilagante che caratterizza la società dell’oggi.
5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?
Il sensazionalismo è una delle principali criticità a cui va incontro il giornalismo sociale. Problematica che si lega, prima di tutto, alle logiche di mercato e a quella del clickbait caratterizzata proprio dall’utilizzo di titoli e contenuti volutamente sensazionalistici, progettati per attirare l’attenzione del pubblico e indurlo a cliccare su determinati articoli per ottenere visualizzazioni, accessi e, dunque, numeri, risultati. Questo, nel concreto, ha un impatto significativo sull’oggettività e la qualità del giornalismo e tanto di più su quello sociale, direttamente connesso alla vita e ai problemi delle persone di cui viene proposta, in questi termini, un’immagine distorta, manipolata e, nella maggior parte dei casi, negativa.
Per proporre, invece, un giornalismo sociale che sia in grado di tutelare davvero le persone serve mettersi nei panni delle persone stesse, chiedersi: come reagirei, come mi sentirei se la persona spettacolarizzata fosse un mio amico o un mio familiare? Perché la spettacolarizzazione non solo manipola e distorce il reale, ma impatta direttamente la dignità delle persone coinvolte che vengono presentate attraverso narrazioni stereotipate come i “buoni”, le “povere vittime inconsapevoli” che non hanno gli strumenti per comprendere e affrontare le difficoltà che le circondano o, al contrario, eroi ed eroine che, completamente consapevoli della situazione, combattono strenuamente contro ciò che le affligge. L’utilizzo di queste narrazioni non soltanto manipola l’immagine delle vittime, ma limita la comprensione stessa dei problemi sociali, banalizzandoli e decontestualizzandoli.
Per superare tale criticità serve professionalizzazione, studio e approfondimento nei confronti di tali tematiche altrimenti il rischio diretto è l’allontanamento del pubblico da una comunicazione che rimane distorta e manipolata. Ma soprattutto serve che il giornalista sociale adempia al proprio dovere di diffondere la consapevolezza – e questa è, prima di tutto, una sfida culturale – che si è tutti coinvolti in questo tipo di problematiche sociali, perché le difficoltà che toccano una persona, tendenzialmente toccano tutti in un modo o nell’altro.
Dall’altro lato, però, servirebbe anche introdurre una categorizzazione di tale ambito, serve un riconoscimento e una rivalutazione sostanziale della notiziabilità del sociale e questa non può avvenire se non esiste, prima di tutto, uno spazio dedicato in cui possa esprimere in maniera diffusa le proprie funzioni e le proprie potenzialità.
6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?
Credo che la sfida principale sia quella di riuscire a rappresentare nella maniera quanto più intima e vera le persone, soprattutto quelle più vulnerabili, senza cadere in quelle che sono le principali topiche di rischio del giornalismo quando tratta tematiche sociali: evitare la spettacolarizzazione (per i motivi sopra trattati), di far riferimento a certi bias culturali, idee introiettate che propongono una visione distorta della realtà dalle quali anche inconsapevolmente alle volte è difficile sganciarsi, così come è necessario distaccarsi da un’estetica del dolore e della sofferenza, la cosiddetta “poverty porn” che porta con sé un’altra tragica conseguenza: il fatto di proporre questo tipo di narrazioni, incapaci di problematizzare e rigidamente stereotipate, crea come una assuefazione al dolore che abitua i lettori a non sorprendersi più di fronte alla sofferenza altrui, a non indignarsi più davanti al dolore di una condizione di vita, di un problema, di una crisi umanitaria, e così, i problemi sociali, la sofferenza e il dolore stesso finiscono per essere brutalmente naturalizzati. La tragica conseguenza portata dall’estetica del dolore è proprio quella di “abituare” a vedere e ascoltare la narrazione di questi temi fino al punto che la società sembra non essere più in grado di provare empatia, dolore, rabbia, ma impotente si limita a prenderne passivamente atto.
7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?
Già dalla fine degli anni Novanta e più compiutamente dall’inizio degli anni Duemila, il sistema dei media e dell’informazione comincia a vivere una profonda trasformazione. Motori di cambiamento sono stati, in tal senso, la tecnologia e il web 2.0 che hanno spinto gli esperti a parlare di un radicale cambiamento dell’ecosistema informativo. Trasformazione che ha portato con sé infinite e inedite possibilità che, a loro volta, hanno contribuito alla creazione e alla formazione di un digital journalism, una nuova forma ibrida di comunicazione, un nuovo tipo potenziato di “giornalismo liquido”. In questo scenario il digital journalism si impone quindi come un concetto proteiforme, liquido, rivoluzionario perché rappresenta l’ascesa e il consolidamento di una forma di azione sociale attraverso una libertà in termini di partecipazione, coinvolgimento e opportunità mai viste prima. Una libertà che si traduce, da un punto di vista comunicativo, nella possibilità di evadere le canoniche limitazioni spazio-temporali imposte dai media tradizionali e di operare una commistione tra personaggi, temi, luoghi ed espedienti retorici in relazione ai differenti obiettivi e contesti comunicativi. Tutto questo impatta fortemente il mondo del giornalismo e lo fa, in particolare, anche con l’ambito del giornalismo sociale che si appropria rapidamente delle infinite opportunità offerte dal digitale, considerando internet, a tutti gli effetti, un nuovo e sconfinato spazio di libertà della sfera pubblica. Una delle tante opportunità introdotte dal digitale è, infatti, della democratizzazione dell’informazione che contribuisce alla costruzione di nuovi spazi e nuove libertà in grado di facilitare connessioni e di dar voce agli “invisibili”.
Dunque, l’avvento del digitale e, insieme, i rischi e le opportunità da esso portate rappresentano, dunque, una sfida cruciale per il giornalismo sociale contemporaneo poiché tutti questi fattori stanno contribuendo a ridefinirne concretamente il ruolo e l’impatto sociale. La rete ha aperto nuovi spazi per la narrazione di storie di gruppi e individui tradizionalmente esclusi dalla narrazione dei media tradizionali, offrendo la possibilità di dar voce agli “invisibili” e facilitare connessioni transnazionali tra persone, attivisti, associazioni e movimenti. Tuttavia, queste possibilità vanno accompagnate dalla consapevolezza dei rischi legati soprattutto alla perdita di autorevolezza della professione giornalistica, alla diffusione di notizie false e alla polarizzazione del discorso pubblico che minacciano la credibilità e l’efficacia stessa del giornalismo sociale. Per questo, la sfida credo rimanga quella di capire come bilanciare rischi e opportunità, utilizzando il digitale non solo come strumento di amplificazione, ma anche e soprattutto, come mezzo per ridefinire il proprio ruolo di tramite tra le voci marginalizzate e il resto della società. Soltanto in questo modo il giornalismo sociale potrà continuare a essere catalizzatore di cambiamento e a svolgere la sua missione fondamentale di promozione della giustizia sociale e della partecipazione democratica anche nella nuova dimensione del digitale.
8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?
Credo che l’aggiornamento professionale sia fondamentale per garantire la qualità del giornalismo. Con i nuovi pubblici, i nuovi strumenti e tutte le novità introdotte dal digitale subentra, infatti, una continua e costante richiesta di professionalizzazione e questo è tanto più urgente in relazione al giornalismo sociale.
Questo perché i problemi e i temi sociali non sono qualcosa di immutabile, qualcosa che esiste a priori, ma fenomeni che evolvono in stretta relazione all’epoca storica e al contesto nel quale si trovano a essere inseriti. Per questo motivo, per questa particolare tipologia di giornalismo, l’aggiornamento rimane qualcosa di imprescindibile se l’obiettivo comunicativo rimane quello di proporre e perseguire un’informazione autentica che sia in grado di incidere positivamente nelle vite di tutti coloro che, quei problemi, li vivono ogni giorno sulla propria pelle e non, invece, un’informazione anacronistica e fondamentalmente sbagliata perché non aderente all’evolvere del tempo.
9. Come è venuto a conoscenza del Premio giornalistico?
Amici.