1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?
Ho scelto, come ormai da qualche anno, di partecipare nuovamente a questo Premio giornalistico innanzitutto perché credo nel valore della divulgazione e della comunicazione come metodo di sensibilizzazione, perché partecipare a questo concorso secondo me significa conoscere o venire a conoscenza di Alessandra Bisceglia, della persona, del suo lavoro e dell’importante testimone che ha lasciato a chi porta avanti il suo messaggio ancora oggi. Questa esperienza per me significa mettermi in gioco su temi, quello della salute, della malattia, della solidarietà, che sento miei e che voglio imparare a comunicare sempre meglio.
2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?
Penso che chiunque, almeno una volta nella vita, si identifichi nelle storie con cui viene a contatto e questo fa sì che, almeno in quel momento, la persona si possa sentire parte di un insieme, della società, in cui ritrova anche i suoi bisogni, le mancanze, le rivendicazioni o in generale le questioni che ha a cuore.
3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?
Credo sia fondamentale che chi fa giornalismo o utilizza nel suo lavoro i mezzi di informazione si occupi di dare voce a chi non ne ha, di mettere in comunione attraverso la parola perché il medium diventi davvero democratico, sia uno strumento sociale di condivisione a cui tutte le persone possono partecipare.
4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?
Le testate giornalistiche dovrebbero senza dubbio occuparsi di temi sociali, ma non tanto, secondo me, per educare il pubblico – non è compito del giornalista educare ma informare, comunicare, certo con un linguaggio più rispettoso possibile – quanto per rendere pubblica la conoscenza di qualcosa che interessa tutte e tutti. Penso sia fondamentale informare, rendere accessibile quel tema in modo più obiettivo possibile, perché il lettore sia poi spronato ad approfondirlo.
5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?
Cercando di mantenere la giusta distanza tra noi e l’interlocutore, che deve dare il tono al nostro articolo o servizio, e rispettando la sua storia, il suo vissuto, non lasciandosi affascinare dalla soluzione facile per acchiappare l’attenzione del pubblico ma andando ad approfondire la questione senza scadere nella banalità o nei toni sensazionalistici. Servono rispetto e mediazione, ma soprattutto attenzione al linguaggio.
6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?
Tra le maggiori sfide che affronto nel raccontare storie inerenti a tematiche sociali c’è sicuramente la sfida linguistica, non solo nell’utilizzo di termini appropriati per riferirmi alle persone protagoniste o testimoni della storia stessa, che non possono essere semplicemente etichettate come “malate” o “disabili” o “affette da…” togliendo loro la soggettività rispetto alla malattia o alla disabilità che hanno, ma anche nel non scadere in un tono pietistico o paternalistico che condizioni l’articolo stesso a una visione legata più alla morale che ai fatti. Inoltre nel presentare certe tematiche personalmente devo impormi dei limiti per non lasciarmi coinvolgere, come professionista della comunicazione, troppo emotivamente dalla storia in sé, perché queste mie emozioni non condizionino la notizia: secondo me è fondamentale essere interessate a certi temi, a certe vicende e storie umane, e anche avere empatia per le persone coinvolte, ma non lasciandosi “prendere la mano” per non perdere di vista il focus dell’articolo stesso.
7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?
I social media sono ormai uno strumento quotidiano quasi indispensabile per chi lavora nel mondo della comunicazione, sia nel consentire ad una platea più ampia di persone di fruire delle informazioni sia, per chi invece fa comunicazione, per avere un canale di contatto più immediato e costante con il proprio pubblico. Questa continua ricerca dell’immediatezza e della velocità a cui ci obbligano i social, tuttavia, non ci deve far perdere di vista i principi su cui si basa il nostro lavoro, su tutti quello espresso dall’art. 2 della legge 69 del 1963, ossia «il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede». Le piattaforme siano quindi strumenti di democrazia e partecipazione, non di scontro, proliferazione di odio e fake news alla ricerca del consenso facile.
8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?
Visto che viviamo in una società fluida e in continua evoluzione e trasformazione è necessario non sentirsi mai arrivate nella nostra formazione professionale, prendendo invece spunto dai continui mutamenti perché ci spronino a continuare ad accrescere le nostre conoscenze anche in campo lavorativo. E credo che l’offerta di corsi oggi sia più che adeguata per trovare una risposta a tante curiosità e a porre nuovi interrogativi che stimolino noi giornalisti a trovare anche tanti temi che spesso vengono lasciati al margine del dibattito pubblico.
9. Come è venuto a conoscenza del Premio giornalistico?
Grazie al passaparola di una collega che ha partecipato anni fa e me lo ha fatto conoscere.