Intervista a Vittoria Giulia Fassola

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

Ciò che mi ha spinto a partecipare a questo Premio è stata prima di tutto la consapevolezza del ruolo che il giornalismo ha nel dare voce a chi rischia di restare invisibile. Viviamo in un mondo dove l’informazione corre veloce, ma spesso dimentica di soffermarsi sulle storie più fragili, su quelle comunità – come le persone con malattie rare o disabilità – che non fanno notizia solo per i numeri, ma per il loro coraggio, le loro sfide quotidiane, le battaglie per avere accesso a cure, diritti, attenzione. Dunque, questa esperienza, significa rimettere al centro il giornalismo come servizio sociale, non solo come cronaca o intrattenimento. 

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?

Le storie di vita reale hanno un potere che nessun dato, nessuna statistica e nessun comunicato ufficiale può eguagliare: danno un volto umano ai problemi sociali. Quando raccontiamo la storia concreta di chi lotta contro una malattia rara, di chi si confronta ogni giorno con barriere fisiche o culturali, rendiamo immediatamente visibile ciò che altrimenti resterebbe astratto.
Quando una storia reale viene raccontata con onestà, empatia e sensibilità, il pubblico smette di percepire le persone come “casi” e comincia a vederle come parte della stessa comunità. 

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Dare voce a chi non ce l’ha non è un gesto di carità, ma un dovere del giornalismo e della comunicazione sociale. Significa riconoscere che esistono persone, comunità, storie che restano ai margini non per mancanza di importanza, ma per mancanza di ascolto. Dare voce a chi non ce l’ha fa sì che le barriere create dalla società possano essere messe in discussione ed eventualmente anche essere abbattute. 

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

Ritengo che le testate giornalistiche abbiano una responsabilità profonda nell’educare il pubblico sui temi sociali. Il giornalismo non è solo racconto dei fatti, ma anche interpretazione, contesto, spiegazione: elementi essenziali per permettere ai cittadini di comprendere le sfide collettive e di formarsi un’opinione consapevole. Quando si parla di temi come malattie rare, disabilità, inclusione, equità nell’accesso alle cure, il rischio è sempre quello della superficialità o della spettacolarizzazione. Per questo le testate hanno il dovere di andare oltre il titolo d’effetto e offrire al pubblico strumenti per capire: dati affidabili, storie autentiche, analisi equilibrate.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

Mantenere l’equilibrio tra sensazionalismo e oggettività è una delle sfide più grandi per chi fa informazione, soprattutto quando si trattano temi delicati. Da un lato c’è la necessità di catturare l’attenzione del pubblico, ma dall’altro c’è il rischio di trasformare il dolore, la malattia, la fragilità in puro spettacolo, banalizzando o deformando la realtà. Il primo strumento per evitare questo scivolamento è l’etica professionale: attenersi ai fatti verificati, evitare toni enfatici, dare voce ai protagonisti reali delle storie senza filtrarli attraverso cliché o stereotipi. Come ricordano anche i principi della Carta di Roma, firmata dall’Ordine dei Giornalisti, la responsabilità dell’informazione aumenta quando si trattano minoranze, soggetti fragili o marginalizzati, e richiede particolare attenzione nel linguaggio, nelle immagini, nella costruzione della narrazione. 

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Una delle sfide maggiori nel raccontare storie sociali è trovare il giusto equilibrio tra profondità, empatia e racconto giornalistico. Un’altra difficoltà importante è ottenere la fiducia delle persone coinvolte. Quando si lavora su storie delicate, non basta chiedere un’intervista: bisogna entrare in punta di piedi, costruire un rapporto di ascolto, garantire che ciò che si racconterà rispetterà la loro dignità e non li esporrà a ulteriori vulnerabilità. 

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?

I social media hanno trasformato la comunicazione sociale dando voce a chi prima era invisibile, amplificando temi spesso ignorati dai media tradizionali. Hanno reso l’informazione più immediata e partecipativa, ma hanno anche portato nuove sfide: disinformazione, superficialità, polarizzazione. Per il giornalismo, questo significa adattarsi, senza perdere rigore e qualità, imparando a usare i social come strumento di diffusione e ascolto, ma mantenendo sempre un ruolo di verifica e approfondimento. Usati bene, i social possono rafforzare l’informazione sociale, non sostituirla.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?

La formazione e l’aggiornamento professionale sono essenziali per garantire un giornalismo sociale di qualità, perché permettono ai giornalisti di acquisire nuove competenze, aggiornarsi sulle evidenze scientifiche e padroneggiare linguaggi e strumenti adeguati. In un mondo che cambia velocemente, restare aggiornati significa saper raccontare meglio temi complessi, evitare stereotipi, usare dati affidabili e comunicare in modo inclusivo. 

9. Come è venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Sono venuta a conoscenza del Premio giornalistico attraverso la segreteria del master, un’ottima opportunità!