Intervista a Chiara Colangelo

Chiara Colangelo ha 29 anni. Dopo avere conseguito la laurea in Giurisprudenza all’Università la “Sapienza” di Roma, ha deciso d’iscriversi al Master di giornalismo all’Università di Lingue e Comunicazione Iulm di Milano. Durante il periodo di formazione ha lavorato due mesi a TgCom24 poi, da settembre a ottobre 2018, ha svolto due mesi di stage a RaiNews24, nella sede di Saxa Rubra a Roma. Attualmente collabora con la testata online Linkiesta.it su cui ha pubblicato per la prima volta (ad aprile 2019) un breve reportage su una comunità di free vax nelle Marche. Sempre a Linkiesta ha svolto tre mesi di tirocinio: dal 3 settembre 2019 al 29 novembre 2019. Ha acquisito nuove capacità e competenze nell’ambito dell’informazione e dei media e importanti conoscenze tecniche: Word Press, Qoobe, Adobe Premiere Pro, InDesign, Photoshop, Fotografia, Social Media, Web Video, ripresa e montaggio. Prima del master, per oltre un anno, ha collaborato con una rivista mensile, A&I Artigianato e Impresa.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Grazie alla collaborazione con la testata Linkiesta.it ho avuto modo talvolta di proporre temi sociali, tra i quali anche quelli riguardanti le malattie. Penso a esempio alla depressione, che sebbene non sia una malattia rara ha non solo un impatto ma anche un costo sociale importante che viene spesso ignorato. Questo perché la depressione è causa di episodi di suicidio su cui le regole deontologiche pongono precisi paletti come è giusto che sia quando si tratta di un singolo episodio. Ma se anche il suicidio diventa una “patologia” della quale è sempre più affetta la società in Italia come nel resto del mondo sono convinta che parlarne e scriverne sia giusto. Io l’ho fatto, trattando proprio del problema della depressione. Per questa mia naturale inclinazione e passione per i temi sociali direi che no, non è stata una sfida, ma un piacere.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

No, purtroppo spesso accade che la comunicazione sociale non trovi spazio nelle testate. E quando lo trova viene considerato come un argomento di serie b, che può essere pubblicato anche in decima o ventesima pagina.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Ambedue.

Le notizie devono essere sempre nuove?

No, non sono d’accordo. Soprattutto nella comunicazione sociale. Su molte malattie rare si sa ancora poco. Rispetto a molte patologie pochi sanno l’impatto che hanno. Se c’è uno sviluppo scientifico su una determinata malattia esso può essere visto come una notizia nuova, ma ritornare su uno stesso tema magari affrontando diverse sfaccettature è altrettanto essenziale per una corretta informazione.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Bhé lo dico purtroppo con vergogna: spesso sono prodotti commerciali. Credo che sia sotto gli occhi di tutti. Fortunatamente non tutti. Ma l’aspetto commerciale e pubblicitario, vista anche la profonda crisi dell’editoria italiana, sta erodendo e molto la naturale e giusta finalità delle testate: informare e orientare l’opinione pubblica.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Questa è una delle domande più difficili a cui rispondere. Se si pensa che molti giovani che si affacciano a questo mestiere sono costretti a sottostare a un sistema che andrebbe immediatamente svecchiato. Il buon giornalista di venti anni fa non lo è altrettanto oggi. Un buon giornalista però, secondo me, è una persona che ha profonda capacità di discernimento. Rispetto per i lettori. Una guida per l’opinione pubblica che soprattutto oggi sembra più disorientata che mai. Se un tempo andava bene scrivere di un politico o trattare la politica dal buco della serratura oggi direi che è un approccio sbagliato, perché ciò ha contribuito a trattare con superficialità le notizie invece di scendere in profondità. Non solo. Il buon giornalista dovrebbe avere il coraggio di non scrivere mai ora per sostenere una parte ora un’altra. Dovrebbe riuscire a essere sempre sempre sempre indipendente. Oggi non è così. Almeno, quasi mai.

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