Intervista a Marco Di Vincenzo

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È una grande e bella sfida, direi. Sensibilizzare l’opinione pubblica su diversi temi, raccontando la vita e le storie delle persone, credo sia una delle cose più appassionanti che un giornalista possa fare.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia di Giulia Vernata, che ho raccontato nel servizio inviato per il concorso, è una delle più belle che ho avuto la fortuna di incontrare. Una ragazza di appena 22 anni che, sofferente sin dalla nascita per una forma piuttosto aggressiva del morbo di Chron, ha trovato nello sport la sua ragione di vita. Durante l’intervista, mi ha raccontato che i medici le avevano dato una prognosi di soli 3 o 4 anni di vita: un colpo durissimo per una ragazzina così giovane. Eppure, ha raccontato che la forza di volontà e la passione l’hanno aiutata a superare tutto. “È la mia vita e mi rende felice”, mi ha detto. Lo sport è stato più forte del dolore e della malattia.

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Valgono le regole d’oro per il buon esercizio del diritto di cronaca: verità, continenza, pertinenza. Secondo me bisogna raccontare tutto quello che può interessare davvero il pubblico e tutto quello che può contribuire a migliorare la società, sempre nei limiti del buon gusto e della verità. Occorre, poi, che sia dato più spazio alla buona informazione, raccontando tutti i risvolti positivi delle vicende e mettendo in luce le soluzioni, non solo i problemi.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La Comunicazione Sociale oggi dovrebbe trovare ancora più spazio sulle testate, specialmente in Italia. In un periodo come questo, dove i giornali e le tv sono inondati dalle notizie in tempo reale sui numeri della guerra in Ucraina e della pandemia, talvolta sarebbe bene ridurre la velocità, fermarsi e riflettere, raccontando anche il lato buono delle cose. Bisognerebbe lasciare più spazio e tempo a quello che viene chiamato constructive journalism. Come detto, non bisogna parlare solo di fatti negativi, ma anche raccontare come le persone, le istituzioni e le comunità agiscono per dare risposta ai problemi sociali. Bisogna raccontare di più il buono e il bello che c’è.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non per forza. Personalmente sono contrario all’approccio da breaking news a cui, sempre più spesso, ci stiamo abituando. Prima le tv all news e ora le notifiche push sugli smartphone ci hanno costretto a rincorrere a tutti i costi la notizia dell’ultima ora. Una gara insensata a chi arriva prima. Penso che sia  bene rallentare e trovare quelle notizie – non per forza nuove – che possono contribuire a renderci persone migliori.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate, oggi, sono sempre più simili a prodotti commerciali, è vero. Credo che sia un effetto, ahinoi, della crisi dell’editoria – soprattutto della carta stampata – e ai problemi legati all’economia del periodo storico che stiamo vivendo. Questo non significa, però, che non esistano giornali o tv indirizzati alla funzione di servizio pubblico.

 7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Per me, essere un buon giornalista significa raccontare le storie delle persone, facendo emergere e illuminando il lato positivo che c’è nella società. Essere un buon redattore significa anche aiutare e stare vicino alla gente. Credo che un giornalista abbia una funzione sociale importantissima, che molto spesso non gli viene riconosciuta. Anzi, talvolta la sua figura è vista in malo modo o del tutto screditata. Non dovrebbe essere così. Il giornalismo non è solo il cane da guardia della democrazia, come si dice, ma anche linfa vitale per il buon funzionamento di una società.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite il web, attraverso il sito del Federazione Nazionale della Stampa Italiana.

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