Intervista a Elvira Iadanza

Elvira Iadanza, nata a Benevento, ha vissuto fino ai 18 anni a Reino, nella provincia sannita. Laureata in lettere all’Università Sapienza di Roma, ha sempre sognato di diventare giornalista e per questo si iscrive alla Scuola di giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Proprio nella città di Partenope inizia a collaborare con testate locali, dal Corriere del Mezzogiorno, fino al Mattino, con cui collabora tutt’ora.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

È stata una sfida perché non è facile affrontare tematiche così delicate e soprattutto trovare il giusto linguaggio per parlarne. È stata una sfida anche emotiva: la storia che abbiamo raccontato parla di persone sole, che hanno trovato un equilibrio attraverso la vita insieme. Inoltre è stato difficile anche trovare un riscontro nelle istituzioni, che spesso non danno la dovuta rilevanza al problema.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Non quanto dovrebbe. Spesso si raccontano i casi eclatanti, ma la vita “normale” delle persone con disabilità solitamente non rientra fra le prime pagine dei giornali. Sull’inclusione sociale bisognerebbe lavorare di più. Ma non mancano iniziative come questa che mettono al centro del loro progetto le problematiche della disabilità e dell’inclusione sociale.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Le parole vanno sempre scelte da chi scrive, sia in un articolo cartaceo che in una registrazione sonora. Bisogna trovare un equilibrio: non compatire, ma raccontare. È questo che rende più giusta la narrazione e soprattutto che racconta la verità della vita di chi con molte difficoltà cerca di portare avanti una battaglia.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Non per forza. Si può raccontare l’inizio di un’esperienza, ma anche aggiornare su ciò che è iniziato un po’ di tempo fa. Lo scopo, ad esempio, può anche essere quello di sensibilizzare o di sposare una causa.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Non mi sento di abbracciare nessuna delle due definizioni. Si cerca di mediare fra l’attualità, l’informazione e anche le entrate. In un settore sempre più in crisi come quello editoriale, però, forse si dovrebbe ritornare alla qualità delle notizie. E qualità significa parlare a tutti e delle problematiche di tutti. Nessuno deve sentirsi escluso.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Il buon giornalista è chi cerca di raccontare la realtà da un punto di vista inedito. In un mondo in cui l’informazione viaggia velocemente, c’è bisogno di un passo in più. Deve entrare nei fatti, non limitarsi a guardarli a distanza. È un buon giornalista chi fa il suo lavoro senza offendere, chi controlla le fonti e ne trova delle sue. È un buon giornalista chi rispetta le regole deontologiche. Chi si batte per un’ideale di verità. Chi non fa sconti a nessuno. Chi non ha paura. Chi è sensibile a ciò che lo circonda. Un buon giornalista nota i particolari, ma non se ne lascia ammaliare. È un buon giornalista chi scrive ciò che è importante far sapere.

 

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