Intervista ad Alessandra Lanza

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?
    Può sicuramente contribuire, con la giusta comunicazione e scegliendo di
    premiare storie delle quali traspaia non solo l’aspetto straordinario, ma anche
    e soprattutto quello quotidiano.
  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?
    A segnarmi, più di altre, c’è stata la storia di Mohammed “Momo” Baidi, che
    ho conosciuto una decina di anni fa tra le mura della mia università dove
    all’epoca frequentavo la Scuola di Giornalismo. Mi raccontò delle sue
    difficoltà nel riuscire a muoversi nella città di Milano, che fosse per venire a
    seguire le lezioni o per fare cose che per i suoi coetanei erano più che
    scontate, come andare al bar con gli amici, o fare un giro in centro. All’epoca
    nella sua voce c’era molta rabbia. Oggi invece, anche grazie alla disciplina
    sportiva che pratica insieme ad altri ragazzi con disabilità, l’hockey, è riuscito
    ad accettare la propria condizione, superando quelli che riteneva semplici
    limiti e trasformandoli in qualcos’altro.
  2. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?
    È difficile, perché la sofferenza degli altri ci tocca e ci muove, suscitando
    quell’empatia che ognuno di noi possiede in diversi livelli. Tuttavia, senza
    pretendere di affrontare il racconto come degli automi o un’intelligenza
    artificiale ben addestrata, è anche possibile affidarsi ai propri principi
    professionali per utilizzare la giusta distanza che permetta di non perdere
    l’oggettività che richiede il racconto. In generale, comunque, nessun racconto
    può essere al 100% obiettivo.
  3. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?
    Non su tutte nel modo giusto. Spesso in quelle più generaliste argomenti
    come questi vengono trattati con superficialità, oppure sensazionalismo,
    andando a pescare quelle storie di cui viene calcato l’aspetto eccezionale,
    che le allontana dal corretto inserimento inclusivo della società.
  4. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?
    La novità è un criterio che fa parte del racconto giornalistico, che, inquadrata,
    permette di dipingere la realtà e i suoi continui cambiamenti, ed è compito del
    giornalista veicolarla. A volte però l’ambizione (o la necessità editoriale) di
    arrivare per primi su qualcosa crea degli squilibri, e va tenuto in conto. La
    cosa fondamentale è che si può trovare un nuovo risvolto anche in storie che
    apparentemente non lo sono, rintracciandone i piccoli cambiamenti o quegli
    aspetti costantemente riattualizzabili perché estremamente quotidiani.
  5. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?
    Dipende. Esistono testate di ogni tipo: alcune mantengono ancora una
    vocazione di servizio pubblico, con difficoltà e impegno. Tante altre, non
    sempre ed esclusivamente per lucro, ma a volte anche per motivi di
    sopravvivenza, vi hanno rinunciato, o lo hanno messo in secondo piano,
    prediligendo storie che possano vendere i prodotti che popolano le pagine, o
    il media stesso, creando interazioni ed engagement.
  6. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?
    Sì, ed è meno complesso di quanto si pensi e si riscontri effettivamente nei
    media. Purtroppo la creazione di interazioni ed engagement sopra citate
    diventano spesso l’obiettivo principale di molti media, che cavalcano quindi le
    notizie con una volontà di sensazionalismo che non fa bene alle storie, ai
    suoi protagonisti e alla comunità che le riceve. Tuttavia, tenendo sempre
    bene a mente i principi del giornalismo, la deontologia e soprattutto anche la
    propria etica personale, è possibile trattare queste tematiche in modo
    corretto.
  7. Come sei venuto a conoscenza del Premio?
    Su segnalazione di un collega.