Non è giornalismo se non lo vivi sulla tua pelle

Micaela Palmierigiornalista e conduttrice del TG1 Rai

“Ho deciso di fare la giornalista il 12 settembre del 2001. L’ho deciso veramente solo quel giorno. Fin da piccola ho avuto il desiderio di diventare un medico, poi ho pensato che diventare giornalista come lo intendevo io forse equivaleva a cercare di salvare la vita alle persone e curare le loro malattie, quelle dell’anima. Un buon giornalista, dal mio punto di vista, deve servire a questo, deve essere questo. Quindi ho preso la mia decisione: diventare giornalista dopo l’11 settembre del 2001, uno di quei giorni che ha cambiato per sempre le vite di tutti, lo sappiamo. E la scelta l’ho fatta leggendo avidamente, fin nei dettagli, il Corriere della Sera, gli articoli, gli editoriali, i fondi di quel 12 settembre dopo l’apocalisse. Quello che accese la mia passione fu Indro Montanelli, il suo modo di raccontare ricordo che rapì totalmente la mia attenzione. E così fu anche per Oriana Fallaci. Raccontò di aver assistito al momento della tragedia da casa sua a New York cercando di spiegare lo stato d’animo di una città ferita nel profondo. Ho pensato che fossero persone che spalmavano pomate su anime distrutte: le nostre. E così capii cosa volevo essere. In quel momento la mia anima la stavano curando e io volevo fare lo stesso. E con questa convinzione che- credo- solo la passione può darti veramente, ho cominciato il mio lavoro, negli anni. Tentando di vedere con i miei occhi, di conoscere le persone di cui poi raccontare le storie, le vite, i bisogni, le ingiustizie. Di ascoltare quello che accadeva, ciò che le persone mi raccontavano e poi narrarlo a mia volta. Ho sempre cercato, nelle varie redazioni in cui sono stata, di proporre servizi che potessero in qualche modo risvegliare le coscienze, che riuscissero perlomeno a smuovere situazioni paludose e immobili che potevano essere sbloccate anche solo parlandone, non lasciandole inascoltate.

È stato così per il bosco di Rogoredo di Milano. L’inchiesta che ho realizzato è nata quasi casualmente. Faccio spola tra Roma e Milano da anni e la stazione più comoda per arrivare a casa mia nel capoluogo lombardo è appunto Rogoredo, una delle stazioni più importanti di Milano. Mentre aspettavo il treno mi capitava sempre più spesso di vedere eserciti di ragazzi, alcuni veramente molto giovani, che con occhi sbarrati e aria smarrita, si aggiravano e chiedevano soldi, a volte anche in maniera molesta. All’ennesimo episodio cui ho assistito, volevo capire cosa stesse accadendo. Ho un caro amico che vive in zona e ho chiesto a lui, era tutto troppo strano. Mi aprì gli occhi. Mi raccontò ciò che ormai da tempo accadeva a non più di 200 metri dalla stazione, in quello che era chiamato “il boschetto”, una zona grande circa 60 campi da calcio infestata dallo spaccio e da ragazzi, ragazzini, alcuni poco più che bambini schiavi dell’eroina. Ricordo ancora la prima volta che ci andai. Sporcizia ovunque, siringhe che ricoprivano il terreno, puzza di marciume misto a cenere dei fuochi accesi ovunque. Tronchi abbandonati in mezzo al nulla. Tende di plastica affastellate ovunque. Sotto a una tenda grande c’erano 15-20 ragazzi. Alcuni con la testa che penzolava da un lato, altri ancora con la siringa ancora piantata nel braccio. Ecco, io penso che se non vedi una scena così shoccante con i tuoi occhi tu non possa renderti conto davvero di ciò che accadeva in quel luogo. Ci sono tornata tante volte negli anni e ho cercato di dare una mano a quella distruzione, oltre che a raccontarla per cercare di svegliare le istituzioni che stavano a guardare o perlomeno non intervenivano come avrebbero dovuto. Nel tempo ho visto le cose cambiare. È stato istituito un presidio medico davanti al bosco, vicino alla stazione, per aiutare i ragazzi che avevano malori e questo fu già un traguardo per evitare le morti in seguito a overdosi, poi le istituzioni in una task force con le forze dell’ordine hanno cambiato la situazione. Molti ragazzi tramite i volontari si sono disintossicati, hanno deciso di andare in comunità e provare ad abbandonare quell’inferno in cui erano piombati. Credo che veder cambiare la situazione a Rogoredo sia stato uno dei momenti più belli del mio percorso di lavoro. E mi sono sentita ripagata di tanti sacrifici. Oggi il problema non è ovviamente risolto ma credo di aver dato anche solo un minimo apporto perché la situazione sia cambiata.

E qui concludo, tornando al senso del mio intervento: non è giornalismo se non lo vivi sulla tua pelle. L’ho voluto intitolare così, perché così è sempre stato per me, al bosco di Rogoredo e ovunque sia stata per raccontare storie, narrare fatti, cercare di risvegliare le persone. Non è giornalismo se non provi a cambiare le cose, denunciandole.

Gli anglosassoni dicono che i giornalisti dovrebbero essere i ‘cani da guardia del potere’. Forse dovremmo ricordarcelo di più. Cantare fuori dal coro non è facile ma quando lo faccio io mi sento sempre migliore”.

 

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