Giornalismo E Ufficio Stampa Al Servizio Di Una Corretta Informazione

Antonio Morelli  – capo ufficio stampa di Farmindustria

“Vorrei innanzitutto portare il saluto del Presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi che mi ha delegato a rappresentare l’associazione in questo evento così importante. Come giornalista, categoria spesso trascurata, apprezzo e ammiro il lavoro certosino della maggior parte dei colleghi, il cui solo scopo è raccontare la verità per quella che è, senza nascondere nulla. E andando a fondo, approfondendo gli argomenti di attualità, con un controllo scrupoloso delle fonti per offrire un servizio ai cittadini. Come imprese facciamo il possibile perché ogni aspetto della vita del farmaco sia comunicato in maniera corretta e veritiera, utilizzando tutti i canali, da quelli tradizionali a quelli più recenti. E vogliamo migliorare sempre più. E siamo consapevoli che, anche nella comunicazione, al nostro fianco abbiamo sempre il paziente, che ci accompagna in tutta le varie fasi della ricerca e ne è il destinatario.

Dalle lezioni della pandemia al valore per il sistema Paese. Cosa le imprese vogliono comunicare

La pandemia può – anzi deve essere – una lezione che ci segna. Non dobbiamo sprecare gli insegnamenti che si possono trarre.  Cito papa Francesco che all’inizio della pandemia diceva: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Ecco, questa esperienza ci ha insegnato tante cose fra le quali quanto siamo fragili e quanto necessaria sia la capacità di prevenire e gestire un’emergenza collettiva. La salute, d’altronde, implica ricerca, digitalizzazione, robotica avanzata, transizione ecologica, lavoro di qualità, formazione continua e investimento nelle nuove generazioni, coesione sociale. La filiera farmaceutica è tutto questo e in Italia è più diffusa di quanto si pensi. Il primo insegnamento è che la Salute è alla base di tutto. Senza Salute e investimenti nelle Scienze della Vita non c’è futuro, né sviluppo armonico della società.

Il secondo è che la partnership è un fattore strategico di competitività. Se non ci fosse stata una collaborazione serrata a livello mondiale tra aziende, Istituzioni, agenzie regolatorie e tutti gli altri attori della Salute non avremmo avuto il risultato che tutti ci auguravamo all’inizio della pandemia: il vaccino in meno di un anno. Una storia che potremmo dire che ha del “miracoloso”. Tutti hanno fatto al meglio la loro parte. E le aziende del farmaco impegnate nello sviluppo dei vaccini anti-Covid 19, con grande senso di responsabilità li hanno prodotti durante la fase di R&S senza garanzie che sarebbero stati approvati. Correndo un rischio, proprio per essere pronte alla distribuzione in caso di autorizzazione. Eppure, se posso muovere una piccola critica, spesso ci si soffermava più sui problemi (il vaccino non c’è, il vaccino ha ritardi nella produzione, etc) che sull’immane sforzo che si stava facendo e che ora ci sta permettendo di intravedere la luce in fondo al tunnel. La storia da raccontare è oggi quella di un’industria strategica per il Paese sia per quello che ha fatto durante l’emergenza pandemica sia perché ha dei numeri importanti in termini di innovazione, produzione, occupazione, investimenti, sostenibilità ambientale e transizione digitale. Ecco quali.

Ricerca/innovazione. Gli addetti totali in R&S sono 6.750, di cui oltre la metà donne. Nel 2020 gli investimenti in R&S delle imprese del farmaco in Italia sono stati di 1,6 miliardi di euro, il 6,3% del totale degli investimenti nel Paese.  Circa 700 milioni sono stati dedicati agli studi clinici, spesso nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), rendendo disponibili per i pazienti terapie innovative e offrendo anche possibilità di crescita professionale a medici e ricercatori. E sostenendo tutti i costi connessi, come l’ospedalizzazione e gli esami diagnostici.

Produzione di valore. L’Italia del farmaco è ai vertici in UE, insieme a Francia e Germania, per valore della produzione: più di 34 miliardi di euro nel 2020 (65 considerando anche l’indotto), trainata da un export che negli ultimi 5 anni ha rappresentato l’85% del valore della produzione.  Aziende farmaceutiche che nel Paese hanno una composizione unica in Europa: 43% a capitale italiano, 57% a capitale internazionale. E che sono tutte – grandi, piccole e medie – fortemente radicate nel territorio. Nel 2020 hanno investito 3 miliardi di euro (1,6 in Ricerca, 1,4 in produzione).

Accesso & valore. In Italia 26 milioni di persone assumono farmaci. Un numero che considerando anche i nuclei familiari e i caregiver coinvolge ogni giorno quasi tutta la popolazione.

Sono 3,6 milioni le persone che nel 2020 vivono dopo aver avuto una diagnosi di tumore. Circa 1 milione in più in 10 anni, più del 40% è guarito o è in via di guarigione, grazie alle innovazioni nelle cure, a diagnosi personalizzate e a percorsi di cura sempre più domiciliari.

Lavoro & sostenibilità ambientale. Sono 67.000 gli addetti dell’industria farmaceutica, per il 90% laureati o diplomati, in crescita del 12% negli ultimi 5 anni. Con un vero e proprio boom – del 16% – per gli under 35 negli ultimi 5 anni. Proprio per i giovani, che rappresentano il futuro, Farmindustria, con un modello unico nel Sistema Confindustria, insieme alle imprese associate, promuove un’intensa attività di Alternanza Scuola-Lavoro

L’industria farmaceutica è anche leader per occupazione femminile che raggiunge quota 43% dei dipendenti rispetto al 29% del resto dell’economia. Nella R&S poi sale addirittura al 52%.  Donne che ricoprono spesso ruoli di responsabilità: sono infatti il 42% di dirigenti e quadri (52% tra gli under 40): nella farmaceutica la parità di genere è da anni una realtà.

Industria che è anche al 1° posto tra i settori industriali per numero di attività di welfare e sostegno per il benessere lavorativo, la formazione e il sostegno alla genitorialità.

Le aziende del farmaco hanno poi un’elevatissima attenzione alla sostenibilità ambientale. In 10 anni hanno ridotto in Italia del 59% i consumi energetici e del 32% le emissioni di gas climalteranti.

Digitale & Connected Care. Oltre il 90% delle imprese del farmaco nel 2020 ha mantenuto o aumentato gli investimenti in tecnologie digitali, per migliorare l’accesso alle cure e la continuità operativa.

Con il 61% delle aziende che nel 2020 ha sviluppato progetti su cloud, piattaforme di collaborazione, Big data, Intelligenza Artificiale, Internet of Things, robotica avanzata.

Conclusioni

Le imprese continueranno a fare quello che da tempo stanno facendo. Raccontare i fatti. I numeri sopra elencati significano opportunità di cura, nuova occupazione, crescita dei territori. Insomma, le imprese del farmaco creano valore. Con il Covid-19 è stato evidente il loro ruolo. Ora è importante continuare a raccontare – nel solco tracciato – i risultati raggiunti non solo relativi al Covid, ma anche i prossimi traguardi, le tante occasioni che con le Life Sciences potranno nascere per il Sistema Paese. L’industria è pronta, con la sua volontà e le sue competenze, a rafforzare il ruolo di partner strategico del Paese, per costruire insieme a Istituzioni e stakeholder un patrimonio per la salute, l’economia, la società e l’ambiente: quindi un patrimonio per la Vita.

L’Italia può mantenere e rafforzare la propria competitività, se si concretizzerà un contesto di politiche sanitarie e industriali, coerente con gli obiettivi di salute e crescita. In un settore regolato e a forte concorrenza internazionale come la farmaceutica, infatti, la partnership tra Istituzioni e Industria è un fattore strategico di competitività, per ricercare insieme, nel pieno rispetto dei ruoli e con grande senso di responsabilità, soluzioni per migliorare l’accesso alle cure, la gestione sostenibile della spesa e l’attrattività del nostro Paese per gli investimenti. La sfida che ci aspetta è quella di affrontare il futuro, recuperando il terreno perduto e pensando a nuovi modelli di governance, rafforzando sempre più la medicina del territorio. Il Covid ha determinato un ritardo significativo delle nuove diagnosi e un mancato accesso alle cure nelle principali aree patologiche: patologie oncologiche, croniche infiammatorie, cardio -metaboliche e respiratorie. Secondo uno studio IQVIA – importante azienda a livello mondiale nell’elaborazione e analisi dei dati in ambito healthcare – rispetto alla situazione pre-pandemia, si registra una perdita significativa di nuove diagnosi (- 635.000, pari a -10%), nuovi trattamenti (- 455.000, – 9%), richieste di visite specialistiche (- 3.222.000, – 32%), ed esami (-3.739.000, – 22%), sulle principali patologie croniche. Senza dimenticare di affrontare, con un deciso scatto in avanti, l’emergenza umanitaria del Covid che costituisce anche una necessità per la sconfitta della malattia. Un’operazione complessa ma che va realizzata presto, seguendo i passi suggeriti dalle Federazioni europea e mondiale delle imprese farmaceutiche: aumentare la condivisione delle dosi, ottimizzare la produzione, eliminare le barriere commerciali, sostenere la distribuzione nei Paesi a basso e medio reddito, sviluppare nuovi vaccini e terapie. Obiettivi che vogliamo raggiungere raccontandoli sempre come abbiamo fatto. Con una comunicazione chiara e trasparente, nella consapevolezza che anche in questo ambito i risultati possono essere raggiunti solo se collaboriamo. Tutti insieme”.

Non è giornalismo se non lo vivi sulla tua pelle

Micaela Palmierigiornalista e conduttrice del TG1 Rai

“Ho deciso di fare la giornalista il 12 settembre del 2001. L’ho deciso veramente solo quel giorno. Fin da piccola ho avuto il desiderio di diventare un medico, poi ho pensato che diventare giornalista come lo intendevo io forse equivaleva a cercare di salvare la vita alle persone e curare le loro malattie, quelle dell’anima. Un buon giornalista, dal mio punto di vista, deve servire a questo, deve essere questo. Quindi ho preso la mia decisione: diventare giornalista dopo l’11 settembre del 2001, uno di quei giorni che ha cambiato per sempre le vite di tutti, lo sappiamo. E la scelta l’ho fatta leggendo avidamente, fin nei dettagli, il Corriere della Sera, gli articoli, gli editoriali, i fondi di quel 12 settembre dopo l’apocalisse. Quello che accese la mia passione fu Indro Montanelli, il suo modo di raccontare ricordo che rapì totalmente la mia attenzione. E così fu anche per Oriana Fallaci. Raccontò di aver assistito al momento della tragedia da casa sua a New York cercando di spiegare lo stato d’animo di una città ferita nel profondo. Ho pensato che fossero persone che spalmavano pomate su anime distrutte: le nostre. E così capii cosa volevo essere. In quel momento la mia anima la stavano curando e io volevo fare lo stesso. E con questa convinzione che- credo- solo la passione può darti veramente, ho cominciato il mio lavoro, negli anni. Tentando di vedere con i miei occhi, di conoscere le persone di cui poi raccontare le storie, le vite, i bisogni, le ingiustizie. Di ascoltare quello che accadeva, ciò che le persone mi raccontavano e poi narrarlo a mia volta. Ho sempre cercato, nelle varie redazioni in cui sono stata, di proporre servizi che potessero in qualche modo risvegliare le coscienze, che riuscissero perlomeno a smuovere situazioni paludose e immobili che potevano essere sbloccate anche solo parlandone, non lasciandole inascoltate.

È stato così per il bosco di Rogoredo di Milano. L’inchiesta che ho realizzato è nata quasi casualmente. Faccio spola tra Roma e Milano da anni e la stazione più comoda per arrivare a casa mia nel capoluogo lombardo è appunto Rogoredo, una delle stazioni più importanti di Milano. Mentre aspettavo il treno mi capitava sempre più spesso di vedere eserciti di ragazzi, alcuni veramente molto giovani, che con occhi sbarrati e aria smarrita, si aggiravano e chiedevano soldi, a volte anche in maniera molesta. All’ennesimo episodio cui ho assistito, volevo capire cosa stesse accadendo. Ho un caro amico che vive in zona e ho chiesto a lui, era tutto troppo strano. Mi aprì gli occhi. Mi raccontò ciò che ormai da tempo accadeva a non più di 200 metri dalla stazione, in quello che era chiamato “il boschetto”, una zona grande circa 60 campi da calcio infestata dallo spaccio e da ragazzi, ragazzini, alcuni poco più che bambini schiavi dell’eroina. Ricordo ancora la prima volta che ci andai. Sporcizia ovunque, siringhe che ricoprivano il terreno, puzza di marciume misto a cenere dei fuochi accesi ovunque. Tronchi abbandonati in mezzo al nulla. Tende di plastica affastellate ovunque. Sotto a una tenda grande c’erano 15-20 ragazzi. Alcuni con la testa che penzolava da un lato, altri ancora con la siringa ancora piantata nel braccio. Ecco, io penso che se non vedi una scena così shoccante con i tuoi occhi tu non possa renderti conto davvero di ciò che accadeva in quel luogo. Ci sono tornata tante volte negli anni e ho cercato di dare una mano a quella distruzione, oltre che a raccontarla per cercare di svegliare le istituzioni che stavano a guardare o perlomeno non intervenivano come avrebbero dovuto. Nel tempo ho visto le cose cambiare. È stato istituito un presidio medico davanti al bosco, vicino alla stazione, per aiutare i ragazzi che avevano malori e questo fu già un traguardo per evitare le morti in seguito a overdosi, poi le istituzioni in una task force con le forze dell’ordine hanno cambiato la situazione. Molti ragazzi tramite i volontari si sono disintossicati, hanno deciso di andare in comunità e provare ad abbandonare quell’inferno in cui erano piombati. Credo che veder cambiare la situazione a Rogoredo sia stato uno dei momenti più belli del mio percorso di lavoro. E mi sono sentita ripagata di tanti sacrifici. Oggi il problema non è ovviamente risolto ma credo di aver dato anche solo un minimo apporto perché la situazione sia cambiata.

E qui concludo, tornando al senso del mio intervento: non è giornalismo se non lo vivi sulla tua pelle. L’ho voluto intitolare così, perché così è sempre stato per me, al bosco di Rogoredo e ovunque sia stata per raccontare storie, narrare fatti, cercare di risvegliare le persone. Non è giornalismo se non provi a cambiare le cose, denunciandole.

Gli anglosassoni dicono che i giornalisti dovrebbero essere i ‘cani da guardia del potere’. Forse dovremmo ricordarcelo di più. Cantare fuori dal coro non è facile ma quando lo faccio io mi sento sempre migliore”.

 

Giornalismo che va, vede, ascolta: la modernità del messaggio del Papa

Paolo Ruffini – Prefetto del Dicastero vaticano per la Comunicazione, già direttore di Rai 3 e del Giornale Radio

 “Penso che starò nei tempi, forse sarò anche un po’ più breve, lo spero, perché non voglio annoiarvi. La mia non sarà una vera e propria relazione. Ho provato a buttare giù qualche appunto, come una testimonianza sul ruolo e sulla forza delle immagini per raccontare: questo è il tema che Raffaella (Restaino, madre di Alessandra e tra i promotori del Premio giornalistico, ndr.) mi ha affidato. Sappiamo tutti, l’importanza che le immagini hanno nel racconto di quello che siamo. Viviamo nella società dell’immagine, siamo tessuti di immagini e forse anche riguardo al modo in cui le immagini costruiscono il nostro immaginario personale e collettivo potremmo dire che noi siamo quello che mangiamo. Nel lavoro di informazione e di comunicazione dobbiamo per forza fare i conti con le immagini. Le immagini ci parlano, le immagini ci feriscono, le immagini ci svegliano, a volte ci anestetizzano, a volte svelano e a volte confondono. Non sempre sono vere, a volte sono false. Questa poi è una parte del ruolo di giornalisti che noi dobbiamo fare: discernere quali scegliere e quali no, quali tramandare e quali no. La foto abbinata ad un articolo non è solo un’esca, qualcosa che attira l’attenzione. A volte è la prima cosa che uno vede, ma spesso è anche l’unica … e può quindi nel bene o nel male farsi veicolo di un messaggio errato: vale per le foto, vale per le immagini, vale per le immagini in movimento e vale per l’audiovisivo. Ci vuole, quindi – per amore della verità e per una corretta informazione – altrettanta attenzione nella scelta delle immagini di quanto non ne mettiamo nella scelta delle parole … e ci vuole un sovrappiù di attenzione, come sappiamo, per le persone coinvolte, soprattutto quando si tratta dei minori o delle persone disabili o vulnerabili. Senza piena sintonia tra parole e immagini rischiamo di avere immagini che senza la parola sono mute o parole che senza le immagini sono secche. Le immagini alla fine rivelano il nostro sguardo. Ho provato a pensare ad alcune delle immagini di cui potevo provare a parlare oggi. Tutti noi credo che ricordiamo le immagini che hanno segnato la nostra storia personale, recente e collettiva. Credo che tutti noi ricordiamo, per quanto riguarda la storia recente, le immagini di Papa Francesco, l’anno scorso, un anno e mezzo fa in una piazza San Pietro terribilmente vuota, battuta dalla pioggia. Era il 27 marzo dell’anno scorso. Gli squarci di luce, il Papa che pregava, il suono delle sirene che rompeva il silenzio, il mondo intero che guardava il Papa avviarsi lentamente, a piedi, verso il sagrato. Le gocce che scorrevano sul volto e sul corpo del Crocifisso. Quelle immagini hanno intessuto una reazione potente, quasi una soggettiva dello sguardo del Cielo sugli uomini. Quelle immagini sono state fatte da colleghi giornalisti, fotoreporter, operatori. Esistono poi immagini che non sono neanche foto, sono immagini create da pittori, che la realtà anche la trasfigurano e che a volte possono essere utili anche a chi fa informazione e chi fa comunicazione, in questo caso sono stati utili all’Osservatore Romano che come sapete è uno dei media della Santa Sede e che quindi in qualche modo fa parte dell’universo che mi tocca coordinare in questo periodo. Anche queste immagini possono avere una forza dirompente. Quest’anno nel giorno del Giovedì Santo l’Osservatore Romano ha pubblicato un dipinto che ci era arrivato da un pittore dilettante francese che racconta lo scandalo della misericordia e che illustra pensiero che fu di don Primo Mazzolari, parroco lombardo del secolo scorso, un pensiero sul tradimento: “… e se fosse che Gesù tradito, Gesù che chiama amico Giuda mentre lo tradisce, lo avesse perdonato?”.  Il quadro racconta Gesù resuscitato che abbraccia Giuda suicida per portarselo in cielo … e don Mazzolari diceva: “Lasciate per un momento che io pensi al Giuda che è dentro di me, che è dentro di voi e lasciate che io domandi a Gesù di accettare che ci accetti come siamo. Io non posso non pensare – disse in questa sua omelia straordinaria del Giovedì Santo – che anche per Giuda e il suo povero cuore la Misericordia di Dio non abbia fatto strada. Forse all’ultimo momento, ricordando quella parola, amico, e la accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse è il primo Apostolo che è entrato in Cielo insieme al Ladrone, in un corteo che certamente non pare faccia onore al Figliuolo di Dio come qualcuno lo concepisce. Ma questa forse è la Misericordia. Ecco, questa è una storia di morte e di Risurrezione che possibile raccontare per immagini. Ho portato qua, non so se riuscirete a vedere, la prima pagina dell’Osservatore di quel giorno con questo quadro. L’ho raccontata anche perché mi pare che questa immagine forse può essere contrapposta alla cultura della gogna mediatica e può aiutarci a dirci quanto, appunto, dobbiamo stare attenti nella scelta delle immagini, perché la storia ha un dinamismo che le immagini se le trasformiamo in gogna possono non avere. Questa capacità simbolica e contemplativa a volte è propria degli artisti, che cercano di scoprire l’essenziale oltre le apparenze. Ma a volte può servire anche a chi fa informazione. Questo convegno ci parla anche di nuovi linguaggi. I nuovi linguaggi, appunto, contaminano. In un suo bellissimo film sui senza fissa dimora – quindi, un documentario – un regista italiano, Corrado Franco ha raccontato per esempio per immagini il funerale di un barbone romano … si chiama “Al di qua”, un documentario bellissimo, per chi non lo avesse visto lo consiglio … in un cortometraggio portato a Venezia l’anno scorso una regista italiana, Alice Rohrwacher ha messo in scena il funerale della terra raccontando una coltivazione troppo intensiva di noccioleti nell’orvietano, chiudendolo con un epitaffio che sa di Risurrezione, dicendo: “Ci avete seppellito ma non sapevate che eravamo semi”, regalandoci una speranza che non è fondata su un intimismo di maniera, ma sulla capacità di leggere i segni dei tempi e di chiamare all’azione di semina le persone di buona volontà anche attraverso la comunicazione, perché – come si diceva prima – la comunicazione e l’informazione sono anche formazione. Poi c’è un altro genere di immagini: quelle che ci impediscono di dire “non sapevo, non potevo sapere, io non c’ero”: tutti ricordiamo le immagini dei carrarmati a Praga, quella del bambino che porta sulle spalle il corpo senza vita del fratello ucciso in guerra o di Kim Phúc, la bambina vietnamita che fugge dal fuoco del napalm che le aveva strappato i vestiti o anche le immagini del piccolo Alan Kurdi. Tutti noi verifichiamo ogni giorno le immagini nel bene e nel male e tocchiamo con mano quanto difficile sia l’esercizio della libertà, decidere cosa pubblicare e cosa no, perché le immagini possono restituire un senso al racconto, oppure possono davvero confonderci. Possono essere false e rovesciare persino il senso delle cose o coltivare una sorta di voyeurismo estetico del male. Possono essere uno schiaffo che ci risveglia dal torpore o uno schiaffo che ci dice “come fai a non vedere però?”. Come si fa allora a capire? L’Osservatore Romano pubblica ogni giorno – da quando abbiamo un po’ rivisto la sua veste grafica – una grande foto in prima pagina. Lunedì 17 maggio il direttore e la redazione dell’osservatorio Romano hanno deciso di pubblicare una foto che la settimana prima avevano pensato fosse più giusto non pubblicare. Lo hanno fatto dopo un appello del Papa a fermare lo spargimento di sangue innocente. Non è stato facile, ma la decisione sofferta si è fondata sul fatto che le parole le abbiamo a volte consumate tutte e che a volte davvero per capire dobbiamo vedere, dobbiamo vedere l’orrore. Quella scelta fu spiegata da un editoriale che adesso vorrei leggervi, perché racconta il perché di questa difficoltà di scegliere questa foto, che ora vi mostro: sembra quasi un quadro ma si tratta di una foto di mamme che piangono bambini, che piangono bambini uccisi dai bombardamenti”.

RUFFINI LEGGE L’EDITORIALE

“Quella che vedete nella prima pagina è una foto scioccante, un pugno sullo stomaco. Pubblicarla oggi è stata una scelta sofferta. Non è una foto di ieri o di oggi: è uno scatto della scorsa settimana. Quando l’avevamo vista è stata oggetto di riflessione e di una certa discussione. Andava pubblicata una fotografia con i volti riconoscibili e strazianti di due bambini distesi nella barella sotto gli sguardi disperati dei loro genitori? La settimana scorsa avevamo deciso di non metterla in pagina. Ma domenica 16 maggio a Regina Coeli implorando la pace, Papa Francesco ha parlato della morte dei bambini definendola inaccettabile. Loro, le vittime inermi e incolpevoli della guerra e della violenza sono i piccoli dai corpi martoriati. A Gaza in Israele, ma anche nello Yemen, in Siria e Iraq, in Afghanistan e nelle tante guerre dimenticate in Africa. Sono i corpi straziati dei piccoli migranti annegati cercando di attraversare un fiume o il mare aperto in cerca di salvezza e di futuro. Sono i corpi straziati dei bambini violentati e venduti ai trafficanti di esseri umani. Sono i corpi straziati dei bambini vittime del lavoro minorile. Chiediamo scusa ai lettori per questa foto choc. Ma le morti dei bambini sotto le bombe a qualsiasi popolo appartengano non ci possono lasciare indifferenti. Ci testimoniano ancora una volta che la guerra porta solo morte, distruzione e odio. Come insegna la drammatica esperienza dell’Iraq, i bambini pagano il prezzo più alto delle nostre sporche guerre e questo è inaccettabile e per capirlo veramente, scuotendoci dal torpore e dalle bolle dell’indifferenza dentro le quali spesso viviamo abbiamo spesso, purtroppo, bisogno di vedere”.

RUFFINI RIPRENDE IL SUO INTERVENTO DOPO AVER LETTO L’EDITORIALE

“Le immagini di cui abbiamo bisogno, allora, sono quelle che muovono il dinamismo della storia … e allora, visto che anche questo convegno in qualche modo richiama il messaggio di Papa Francesco per la comunicazione e visto il ruolo che oggi rivesto mi piaceva concludere questo mio intervento citando, questa volta, un brano del messaggio di Papa Francesco del 2020. Un messaggio che dice come tutti noi abbiamo bisogno di storie che nutrano la nostra anima e come le storie hanno bisogno di immagini per nutrirsi. L’uomo – adesso cito il Papa e chiudo – è un essere narrante. Le storie influenzano la nostra vita anche se non ne siamo consapevoli. Spesso decidiamo che cosa sia giusto o sbagliato in base ai personaggi e alle storie che abbiamo assimilato. I racconti ci segnano, plasmano le nostre convinzioni e i nostri comportamenti. Possono aiutarci a capire e a dire chi siamo. L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità. Ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi e di vestirsi di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti. Infatti la capacità di tessere conduce sia ai tessuti che ai testi. Le storie di ogni tempo hanno un telaio comune, la struttura prevede degli eroi, anche quotidiani, che per inseguire le situazioni difficili combattono il male sospinti una forza che li rende coraggiosi: quella dell’amore. Immergendoci nelle storie possiamo ritrovare motivazioni, anche eroiche, per affrontare le sfide della vita. Queste storie si raccontano anche con le immagini. Grazie”.

 

 

 

 

 

 

Il capitale nascosto del paese – Ferruccio de Bortoli

Ferruccio de Bortoli – Giornalista, già direttore del Corriere della Sera e de IlSole24ore

“Sono onorato di poter intervenire in questa occasione, nell’ambito della cerimonia di consegna del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia. Nella mia relazione vorrei sottolineare l’importanza di un giornalismo che vada a vedere, ascolti, comprenda tutte le situazioni … che si metta nei panni degli altri, anche di coloro che possono essere in un momento troppo distanti da quelle che sono le fonti di informazione classiche; vorrei cioè rivalutare fino in fondo la straordinaria importanza del lavoro del cronista; pur con le nuove tecnologie straordinarie che consentono – ma spesso ingannano – di capire le cose a distanza, un cronista moderno ha bisogno di rendersi conto, di vedere con i propri occhi, di ascoltare la voce delle persone coinvolte, di mettersi – come dicevo – nei panni degli ultimi, degli sconfitti, anche di quelli che sono ai bordi, che sono accusati di qualcosa.

È una forma di attenzione alle persone, senza pregiudizi, nel tentativo di capire e quindi di nutrire lo spirito critico di un’opinione pubblica che spesso, anche in una fase di diffusione disordinata e di nuove colate dei social network, può essere formata da persone che, magari riunite da algoritmi pensano soltanto in una direzione, vanno soltanto nella direzione di una ricerca di informazioni che corroborino le loro opinioni, se non i loro pregiudizi.

Questa funzione del cronista è stata prima molto bene sottolineata da Carlo Verna, da Paola Spadari e dagli interventi che si sono succeduti (durante i saluti istituzionali che hanno preceduto l’inizio del corso-convegno, ndr). Il capitale sociale di questo Paese è straordinariamente vasto e profondo. Insisto sempre su questo aspetto, perché comunque anche e soprattutto nel corso della pandemia, che non è ancora finita purtroppo, abbiamo visto quanto siano importanti le relazioni personali, quanto siano decisive le comunità – anche le più piccole – e come vi sia stata una grande forma di solidarietà. Il 60 per cento degli italiani ha donato qualcosa agli altri in difficoltà. Ma soprattutto gran parte degli italiani – e questo è un piccolo primato che il nostro ha rispetto agli altri Paesi con i quali si confronta spesso in termini negativi – ha donato il proprio tempo a favore degli altri. Questa constatazione sul capitale sociale nascosto del nostro Paese è di una straordinaria importanza. Ecco perché, noi abbiamo il dovere di raccontare questo capitale sociale, abbiamo il dovere di valorizzare le buone pratiche, che sono tante, che tra l’altro nella solidarietà e nel volontariato non c’è poi neanche tanta differenza tra zone e regioni del nostro Paese (come le differenze ampliate di reddito lascerebbero supporre), a dimostrazione di come nella storia del carattere degli italiani, quando si ha poco si valuta in maniera diversa il rapporto con gli altri  e si dà un valore diverso al bene comune. Mi auguro che questa pandemia ci porti a raccontare meglio, di più, il bene comune.

Qui dobbiamo fare, però, una piccola sottolineatura. Abbiamo bisogno di giornalisti che raccontino il sociale, abbiamo bisogno di persone che raccontino il bene, che lo raccontino bene e anche in una forma avvincente, perché voi sapete – soprattutto chi, come il sottoscritto, ha fatto un po’ di cronaca nera – che i vecchi capi cronisti dicevano (non soltanto loro perché c’è anche una vasta letteratura in proposito) che addirittura c’è più romanzo nel male che nel bene. Ma no, non è così. C’è più romanzo nel bene, ma si tratta di raccontarlo bene, così come sul versante del volontariato e di chi si occupa di questioni sociali, quel bene va fatto bene. Il giornalista può essere estremamente utile non solo nel raccontare quello che sta accadendo, ma anche nel raccontarlo mantenendo la sua indipendenza di giudizio, la sua freschezza nell’approcciare una serie di temi, nel raccontare anche ciò che non va bene, pure laddove si fa del bene, perché questa è la funzione di un cronista. Il sociale non ha bisogno di cantori acritici. Qui dobbiamo uscire un po’ da questo equivoco. Guardate, c’è l’equivoco che quando si critica una determinata operazione, una determinata attività, sembra quasi che ci si opponga al fatto che si stia comunque facendo del bene. Ecco, però, quel bene deve essere fatto senza sprechi, raggiungendo le più importanti sinergie, cercando di dilatare il più possibile l’offerta del bene. Io la chiamo “dividendo del bene”. Ma per fare questo bisogna essere molto attenti a sottolineare e a criticare. Guardate, quando c’è una critica non c’è una mancanza di rispetto nei confronti di chi si sta dando da fare per gli altri. È una forma di attenzione critica, ma di grande rispetto nei confronti di tutti coloro che siano impegnati in una associazione di volontariato. Questo vale per l’ambito cattolico, così come vale per l’ambito laico. In Italia ci sono quei sei o sette milioni di persone che sono impegnate in operazioni di volontariato, nel fare del bene. Un milione di persone ha un posto di lavoro che è legato al terzo settore, ci sono 350 mila organizzazioni. Allora, non solo dobbiamo evidenziare la funzione civile e la centralità in Paese democratico di cronisti indipendenti, preparati (mi è piaciuta per esempio la sottolineatura sulla formazione), ma dobbiamo anche uscire dall’equivoco che il racconto del bene debba essere, sempre, un racconto acritico. No, deve essere, come è giusto che sia per ogni buon giornalista, un racconto critico, perché il terzo settore non è un semplice soggetto sussidiario dell’intervento pubblico, non è neanche un (punto) dello Stato nella gestione dei servizi, così come il privato sociale non può essere un prolungamento di forme di mecenatismo … e ce ne sono tante nella nostra società. A volte sono sicuramente virtuose, sono la proiezione di testimonianze, di slanci generosi, però a volte sono, se posso dire, un po’ troppo attente al ritorno di immagine. E dobbiamo fare attenzione a non privilegiare alcune attività – faccio solo un esempio di come potrebbe essere importante la funzione del cronista – che sono soltanto dirette per avere un ritorno di immagine, parlo del privato sociale, del mecenatismo, di molte persone che si danno comunque da fare. Beh, insomma, alcuni bisogni danno un ritorno di immagine superiore, altri bisogni ben più gravi, rischiano di essere trascurati, perché non danno un ritorno di immagine. Questo lo vediamo in molte attività. Certamente dà un ritorno di immagine superiore occuparsi del patrimonio artistico, ne dà molto di meno occuparsi di immigrati, di integrazione, oppure per esempio occuparsi di minori che vanno strappati dal carcere, portati in comunità e allontanati dal rischio di recidiva. Penso che il cronista del sociale debba essere un cronista attento anche a segnalare le criticità di un mondo straordinario, fantastico, diffuso, profondo, ricco, ma che ha dei difetti. A volte per esempio, voi sapete che molte delle attività sono legate a dei dolori personali e familiari e che producono tantissime associazioni, in ricordo di persone che non ci sono più. Sono testimonianze non solo di dolori personali, ma anche della voglia di ricordare i propri cari nel fare qualcosa per gli altri. Ma anche la generosità può essere irrazionale, può essere contraria al raggiungimento degli scopi statutari di una determinata associazione: allora questo può essere un limite. Raccontare queste realtà vuol dire farle crescere insieme. Un altro dei difetti del mondo del sociale – poi ne enumereremo naturalmente i tantissimi pregi – è il fatto che difficilmente si fanno sinergie. Ognuno è geloso della propria piccola – anche se preziosissima – attività. Ma quello che stiamo vivendo, i nuovi bisogni e le nuove povertà relative e assolute hanno bisogno di associazioni che si mettano insieme e che magari rinuncino al proprio nome, ma che aumentino il dividendo del bene: questo è fondamentale che accada. L’altro aspetto che volevo sottolineare è che un donatore non vuole disperdere il proprio gesto di bontà e quindi deve pretendere la massima trasparenza e la massima efficienza dalle associazioni e dalle organizzazioni del cosiddetto terzo settore. Il donatore, infatti, a differenza del finanziatore che mette in conto la perdita del proprio capitale, non accetta l’idea che il proprio contributo possa finire in strutture assolutamente inefficienti. Il racconto del sociale deve essere fatto da cronisti attenti, che danno il cuore svolgendo il mestiere fino in fondo, ma che devono avere qualche volta la freddezza di distaccarsi un po’ dalla vicenda. Il cronista, se infatti è troppo prigioniero della propria emotività, finisce con il far male il proprio mestiere, per essere totalmente riassunto dal fatto che vuole descrivere. È utile la figura del giornalista che mantiene una certa freddezza, che rimane professionista anche quando il suo cuore è coinvolto, quando partecipa emotivamente e condivide in pieno le finalità di un’associazione, ma che continua a svolgere il proprio mestiere. Se non intende questo tipo di dimensione e questo tipo di distacco diventa totalmente inutile come giornalista. Può essere, certo, una parte di una associazione di cui condivide le finalità. Benissimo! Ma è un altro mestiere, un’altra condizione dell’essere umano e del cittadino. Questo esempio che riguarda il capitale sociale, vale a maggior ragione anche per le altre attività umane. Vorrei alla fine, proprio per questo, spezzare ancora di più una lancia sull’utilità del cronista, che si mette nei panni anche degli altri, cerca di guardare al fatto che deve descrivere anche mettendosi da un punto di osservazione diverso. Oggi noi, anche grazie ai social network e grazie alla straordinaria tecnologia che abbiamo a disposizione rischiamo però di guardare tutti i fatti dallo stesso punto di osservazione, di avere uno spirito critico assai modesto e di essere un po’ confusi nell’onda di piena che si stabilisce magicamente nella giornata, nel flusso delle informazioni, delle opinioni e delle tendenze. Dobbiamo invece cogliere l’occasione di descrivere quanto sia importante il capitale sociale in questo passaggio storico importante per il nostro Paese. Guardate, il capitale sociale italiano è così vasto, profondo, utile e diffuso che probabilmente rappresenterà un vantaggio competitivo per il nostro Paese nel passaggio ad un’economia diversa, ai temi dell’inclusione, della sostenibilità non solo ambientale ma sociale. Ancora di più, però, se questo capitale sociale è così importante, fondamentale per il nostro futuro – e non soltanto per far fronte alle necessità e ai dolori e per rendere possibili gesti di amore e anche di testimonianza di memoria del bene, come nel caso del vostro Premio giornalistico – bene, a maggior ragione abbiamo bisogno di cronisti attenti, che descrivano bene, che siano indipendenti, anche distaccati, ma non freddi, perché così si riesce naturalmente a rendere conto all’opinione pubblica di quello che sta accadendo, in modo che si possa avere un’opinione corretta, avvertita, responsabile, critica, che forse si apprezzerà ancora di più e molto di più – e questo è un messaggio straordinariamente positivo soprattutto per i ragazzi che ci stanno ascoltando (la conferenza è stata trasmessa anche online, ndr.) – che il nostro è un bellissimo mestiere, ma che è anche una missione civile, indispensabile, irrinunciabile, importante. Grazie”.

Intervista a Francesco Sinigaglia

Dottore con lode in Lettere, in Scienze dello Spettacolo e produzione multimediale e in Filologia moderna. Attualmente è dottorando di ricerca Università di Bari Aldo Moro in Lettere, Lingue e Arti – XXXV ciclo. Regista, drammaturgo e giornalista pubblicista iscritto all’Albo dell’Ordine dei Giornalisti. Conduce sin dal 2012 laboratori teatrali per bambini, ragazzi e adulti. Fonda il gruppo teatrale CompagniAurea. Tra le produzioni di CompagniAurea si ricorda Benedetto. Il papa di Gesù, partecipazione fuori concorso al Premio Ubu 2019. Ha pubblicato in volume “Otello nel laboratorio di Stanislavskij. Introduzione al metodo delle azioni fisiche” (TraLeRighe Libri Editore, 2018); “I volti della violenza a teatro: Dal Cinquecento a Dacia Maraini” (TraLeRighe Libri Editore 2017).

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Certamente sì. Qualsiasi partecipazione a un premio è una sfida: non tanto con gli altri ma con i tempi perché scrivere per il giornale equivale a raccontare velocemente e con le parole giuste il presente. Questo caratterizza un buon giornalista.

 La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Fare “comunicazione sociale” è un’altra delle sfide del giornalismo contemporaneo: il giornalista non solo deve essere abile nel convincere il suo lettore ad andare oltre il titolo, ma, attraverso una scrittura accattivante e sincera, deve dimostrare di saper trasmettere un messaggio. L’impegno del giornalista, in più, deve essere condiviso dalla testata che spesso e purtroppo, a causa della velocità dei cambiamenti e dei social networks, preferisce orientare la comunicazione verso orizzonti più semplici in grado di produrre numeri vuoti.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte? 

Le parole non si scelgono ma obbediscono alla logica di un pensiero: gli antichi sostenevano che tutto è già stato scritto; noi, invece, abbiamo il semplice compito di registrare la realtà fattuale. I temi attuali e concreti rientrano in un universo solidale in grado di insegnare e coinvolgere: i partecipanti devono tentare di intervenire a sostegno delle tematiche di cui si parlava.

Le notizie devono essere sempre nuove? 

Le notizie non devono essere nuove: devono informare. Queste hanno il dovere di rendere edotti i lettori. Non devono essere parziali, non devono essere gonfiate. Le notizie sono notizie, non storie. Le notizie appartengono alla materia ricostruttiva e per questo non bisogna correre il rischio di anteporre un servizio a un’etica commerciale.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

La risposta sta nello scopo di fondazione della testata più che nel giornalista: il giornalista, poi, decide da che parte stare. Ognuno ha il suo compito. Bisogna, comunque, tenere presente che i giornalisti che afferiscono all’area del “prodotto commerciale” non deve essere sottovalutato o disdegnato: è un lavoratore come tutti gli altri con interessi e obiettivi differenti dal giornalista di “servizio”.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Un buon giornalista è colui che è presente, è in grado di leggere la contemporaneità e stare al passo con i ritmi frenetici del web.  Un buon giornalista, inoltre, ha il dovere morale di padroneggiare fluentemente la lingua che adopera per il suo lavoro. Infine, deve essere in grado di intercettare la notizia e verificare la certezza della fonte. Il giornalista si deve muovere. Come detto, deve essere rapido.

Intervista a Stefano Scaccabarozzi

Stefano Scaccabarozzi ha 34 anni, giornalista, lavora per il quotidiano La Provincia di Lecco. Svolge il lavoro di cronista da ormai dieci anni, da otto è iscritto all’albo dei giornalisti, dal gennaio 2019 come professionista. Nella sua carriera si è spesso occupato anche di temi legati al sociale e all’inclusione. Da un anno a questa parte si occupa di raccontare gli effetti della pandemia nel territorio in cui vive e in cui è diffuso il giornale per cui lavora. Racconta storie, esperienze e le vite dei cittadini lecchesi alle prese con questa emergenza sanitaria, economica e sociale. Insieme ai colleghi Paolo Valsecchi e Lorenzo Bonini, ha curato il libro edito da Rizzoli “Io sono nessuno”, uscito lo scorso 15 settembre che racconta la vita di Piero Nava, supertestimone dell’omicidio del giudice Livatino e primo testimone di giustizia italiano.

 

Intervista a Lorenzo Rampa

Nato a Monza, classe 1993. Brianzolo nello spirito, ma con la Sardegna nel cuore, cresciuto a pane, libri e pallone, da sempre fanatico della cultura pop. Un’insaziabile curiosità ed una profonda passione per le storie lo hanno condotto all’amore per il giornalismo, sbocciato definitivamente dopo uno stage presso il Giornale di Monza. Accantonando gli studi per una carriera da biologo marino, si è laureato in Scienze della Comunicazione a Pavia. Il richiamo del mare tuttavia permane, facendosi immergere ogni volta che ne ha l’occasione. Nel resto del suo tempo libero si divide tra lo scrivere romanzi, il video making e l’ossessione per documentari.

 

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sicuramente sì. Personalmente sono alla mia prima esperienza in assoluto in un bando di questo genere ed è la prima volta che affronto un articolo di taglio scientifico. Penso che di per sé l’ambito della scienza rappresenti una sfida nella sfida, inoltre, trattare di temi delicati e poco conosciuti come quello delle malattie rare è sempre complesso. Ma proprio per questo ritengo che sia fondamentale sensibilizzare su simili questioni, dandovi risalto, con un occhio di riguardo per un’informazione più esatta e precisa possibile, dogma imprescindibile quando si trattano argomenti scientifici. 

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La scelta della malattia rara del Cheratocono non è casuale. Avendolo sperimentato sulla mia pelle, sono stato fortunato ad aver incontrato persone competenti che mi hanno saputo aiutare per tempo. Prima di allora non avevo mai sentito parlare di una malattia simile, che, anche se rara, colpisce sempre più giovani e giovanissimi e purtroppo gode di pochissima visibilità nazionale. Non oso immaginare cosa sarebbe potuto succedere se il mio oculista non avesse riconosciuto il problema. Ho scelto di raccontare questa subdola e silenziosa malattia proprio perché i controlli e la prevenzione sono decisivi, e possono evitare che la vita di tanti giovani venga sconvolta irreversibilmente. 

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

L’informazione può e deve essere prima di tutto utilità sociale. La divulgazione di un argomento di interesse pubblico è sempre utile e rilevante per i lettori nel contesto del presente. Se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, non fa rumore. Allo stesso modo se un’ingiustizia o una disgrazia avvengono senza che nessuno vi assista e, soprattutto, ne parli, si può davvero dire che siano mai accadute? In una società basata su principi a tutela dei suoi membri più deboli o più sfortunati, diventa anche indispensabile dare voce alle storie di pochi, che possono essere d’esempio per molti e sensibilizzano la comunità. Così come sono altrettanto meritevoli di essere oggetto di informazione le possibili iniziative, campagne e raccolte generate dal loro racconto. 

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Ritengo che, fortunatamente, la comunicazione sociale sia ancora un tema abbastanza ricorrente sulle testate nazionali principali. Anche se, a mio avviso, potrebbe e dovrebbe avere ancor più risalto. E non sempre, purtroppo, questo tipo di comunicazione viene riportata con grande cura e attenzione o con sufficiente approfondimento. 

  1. Quali gli effetti dei Mass Media e New Media sulla comunicazione sociale?

L’arrivo dei nuovi mezzi di comunicazione e dei media digitali ha stravolto completamente la realtà di tutto il mondo, intaccando ogni aspetto della comunicazione nella società moderna. La grande rapida diffusione dei social network ha giovato alla comunicazione sociale, garantendo un facile accesso ad una platea enorme e una maggior possibilità di sensibilizzare le persone. Ma allo stesso tempo, sono sorti anche molti aspetti negativi, come la tendenza al sensazionalismo, alla frettolosità, alla mancanza di verifiche e all’eccessivo uso della componente emotiva. Il tutto a discapito dei principi di completezza e accuratezza. 

  1. Esistono parole “giuste” per trattare la Comunicazione?

Più che parole corrette, penso si possa parlare di parole chiave o meglio requisiti imprescindibili, di cui il concetto di comunicazione non può fare a meno. Efficacia, chiarezza, completezza, correttezza, tempestività e contestualità, ma soprattutto utilità, ovvero deve essere ben chiaro lo scopo della comunicazione, che deve sempre stimolare l’interesse del proprio interlocutore. 

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono  essere sempre nuove?

 Si, o quantomeno devono avere un modo nuovo di concepire gli argomenti trattati, devono aggiungere qualcosa e dare una nuova visione delle cose. Stimolare l’interesse del lettore è uno dei punti chiave di cui una notizia non può fare a meno. A volte è necessario ribadire o insistere su certe notizie, per esempio nel caso in cui politica e opinione pubblica si dimostrino restii ad affrontare inchieste o ingiustizie, col rischio che passino velocemente in secondo piano. La stampa in questi casi può fare la differenza, ricordando ai cittadini i fatti accaduti e dando loro visibilità con costanza nel tempo. Così facendo viene mantenuta la coscienza e soprattutto la memoria delle persone e si può evitare che gravi fatti scomodi vengano insabbiati per volere di attori esterni influenti. 

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Credo che la stampa del presente sia un compromesso tra i due estremi. Se è vero che da un lato è la pubblicità a mantenere economicamente in piedi queste realtà nel nostro Paese, l’obbligo morale della funzione di servizio pubblico ai cittadini rimane il concetto fondamentale del giornalismo, senza il quale si perderebbe sia lo scopo che il significato. In ogni testata principale, spesso si possono trovare esempi in entrambi i sensi, i quali convivono in un compromesso figlio dei cambiamenti dei tempi moderni, giunti soprattutto con l’avvento dell’era digitale. 

  1. Che significa essere un buon giornalista?

 Significa applicare l’etica del dubbio, chiedersi sempre il perché delle cose e domandarsi il motivo per cui le si racconta. Bisogna essere curiosi, approfondire e sviscerare le notizie fino all’osso, saper notare quel dettaglio fondamentale che altrimenti passerebbe inosservato. Posto che l’obbiettività assoluta è un’utopia irrealizzabile per definizione stessa del pensiero umano, un buon giornalista ha l’obbligo morale verso l’atto di fede del lettore e deve sempre cercare di raccontare la verità sostanziale dei fatti, con tutte le opportune verifiche del caso. Lo scopo ultimo di un buon giornalista è quello di tenere bene aperti gli occhi dell’opinione pubblica sul presente e mantenere sveglia la coscienza collettiva con un pensiero critico verso la realtà. 

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

 La mia scuola di giornalismo, Walter Tobagi, mi ha segnalato via mail il bando e da quello spunto ho approfondito l’argomento, vista anche la natura degli argomenti trattati, che già attirava il mio interesse.

 

Intervista a Luca Pons

Luca Pons ha 24 anni e da quasi 20 vuole fare il giornalista. Ha iniziato in prima elementare con una visita alla redazione del Corriere di Saluzzo, città del Cuneese in cui è cresciuto. Con il passare degli anni questa ambizione ha segnato il suo percorso di studi, dal liceo classico alla facoltà di Scienze politiche a Torino, fino al Master in giornalismo che attualmente frequenta. Con il tempo ha sviluppato un’idea più concreta e precisa di cosa voglia dire “fare giornalismo” per lui: parlare di politica, cioè di comunità, e trasformare un mondo articolato e complesso in fatti e storie, che permettano ad un pubblico di conoscere meglio realtà vicine o lontane. Per questo, è attirato dal racconto della marginalità, intesa in varie forme, e dal suo rapporto con la comunità. Da questo interesse è nato il servizio che invia per la sua candidatura. In un periodo di crisi e ricorrente emergenza, non voleva che fossero dimenticate le condizioni di giovani ragazzi e ragazze con disabilità. Avendo trovato il bando ed essendosi informato sulla storia di Alessandra Bisceglia, ha sentito che questo servizio potesse contribuire in piccola parte la sua vita e soprattutto il suo lavoro.

1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?
È una sfida ma soprattutto uno stimolo. Permette a storie significative di emergere e ricevere il giusto spazio. Inoltre, in un contesto giornalistico sempre frenetico e a caccia dell’ultima o migliore notizia, partecipare a un Premio giornalistico con un tema così definito permette di “fare un punto” sul proprio lavoro, capire in che direzione si muove, dare il giusto peso ad alcuni servizi o articoli rispetto ad altri.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?
Nella mia – finora – breve esperienza giornalistica, ho potuto incontrare alcune storie davvero significative e umane, che, al di là della retorica, mi hanno fatto riconsiderare e mettere a fuoco il ruolo della comunicazione giornalistica in una società contemporanea. Tra queste, la storia che mi ha toccato più personalmente è quella di Margherita, che ho raccontato nel mio servizio. L’incontro con la madre Lucia, oltre che con varie associazioni che lavorano con persone con disabilità a Torino, segnerà sicuramente l’indirizzo del mio lavoro anche per il futuro.

3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?
Ciò che è rilevante, ciò che è utile e ciò che è dimenticato. Penso che si debba informare il proprio pubblico di elementi che “tornano utili nella cabina elettorale”, come si usa dire, ma anche di storie che contribuiscano a far prendere coscienza della propria comunità, inclusi gli aspetti della stessa che possono parere più lontani o addirittura inesistenti.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?
Dipende dalle testate, ma tendenzialmente penso che si fatichi a uscire da una narrazione pietistica o assistenzialistica. Non è facile trovare storie raccontate con la pulizia e la dignità necessarie, e che pure riescano a trasmettere la forte carica emotiva che spesso la comunicazione sociale è in grado di contenere.

5. Quali gli effetti dei Mass Media e New Media sulla comunicazione sociale?
Ritengo che la comunicazione web e social sia uno strumento che possa portare a un livello di empatia e comprensione di storie marginalizzate che non ha precedenti. Tuttavia, allo stesso tempo accentua quella tendenza a cercare la “notizia ultima e migliore”, ormai pressoché in tempo reale, e per questo rischia di soffocare la comunicazione sociale nellasua forma più ragionata, utile ed efficace. È un equilibrio complesso che va esplorato e sperimentato.

6. Esistono parole “giuste” per trattare la Comunicazione?
Esistono, e non solo: è componente necessaria della professionalità giornalistica essere attivamente aggiornati e attenti al tema del lessico adatto a parlare, per esempio, di disabilità. Un professionista o una professionista che per lavoro usino il linguaggio, non possono fare a meno di prestare attenzione alle eventuali evoluzioni terminologiche, indicate non da un qualche “linguaggio giornalistico” quasi sempre vecchio e inadatto, ma dalle stesse comunità di cui si parla.

7. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?
Penso di no, ma devono essere sempre rilevanti. Una notizia, a mio avviso, è rilevante se informa e/o se pone un interrogativo alla comunità di riferimento. Si può arrivare a una notizia “con calma”, e riuscire comunque a trasmetterla in modo rilevante. Anzi, un approccio non frettoloso alla comunicazione può aiutare proprio a individuare gli aspetti più rilevanti.

8. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?
Penso che le testate siano sempre stati prodotti commerciali, dalla loro nascita. L’equilibrio tra necessità editoriali e necessità giornalistiche non può essere ignorato, altrimenti si rischia di scivolare nella retorica e parlare del nulla. Tuttavia, questo deve essere: un equilibrio. Non si può rinunciare alla funzione pubblica del giornalismo, mai. Penso che oggi si continui la stessa tensione tra le due cose che esisteva ieri, forse in una chiave diversa, perché anche il mondo delle comunicazioni è cambiato.

9. Che significa essere un buon giornalista?
Nella mia opinione, significa ambire a raccontare storie e fatti raccolti con scrupolo in una chiave che permetta alla comunità di riferimento di essere maggiormente informata su se stessa e sul mondo che abita, senza cercare di attirare visibilità con grossolane semplificazioni. Può sembrare una banalità, ma penso che sia una definizione in cui non è semplice rientrare.

10. Come sei venuto a conoscenza del Premio?
Il bando mi è stato inoltrato dalla segreteria del master in giornalismo che frequento e, leggendo di un tema così particolare e significativo, ho colto subito l’occasione.

Intervista a Daniele Polidoro

Daniele Polidoro. Nato a Chieti. Classe 1992. Laureato in Mediazione Linguistica e Comunicazione Interculturale presso l’Università degli Studi Gabriele D’Annunzio. Dopo il master di giornalismo presso la Scuola Walter Tobagi di Milano, ha lavorato a Calciomercato.com, El Mundo Deportes, Sky Sport e La Gazzetta dello Sport. Attualmente collabora con Tgcom24 e Wired.

 

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sì, una sfida importante non solo dal punto di vista professionale ma anche da quello umano. Nell’ultimo anno e mezzo ci si è dovuti scontrare con una realtà molto dura su un tema delicato che ha toccato la salute fisica e psicologica di tutti noi. È importante scegliere le informazioni, capirle, assimilarle, e poi “tradurle” nella maniera più chiara e semplice possibile.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

 La storia della scuola calcio “Insuperabili”, pensata per dare la possibilità di giocare a calcio ragazzi con disabilità. Il calcio dovrebbe essere lo sport di tutti, ma non sempre è così. Per questo, vedere la gioia di quei ragazzi nel riappropriarsi di un qualcosa che sentivano proprio è stato molto bello.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Le storie. Alle volte si tende a “spersonalizzare” i protagonisti delle vicende ma, in alcuni casi, sarebbe approfondire anche il lato umano di una vicenda che si racconta. La storia personale di ognuno di noi è frutto di esperienze belle e brutte che meritano di essere conosciuto, ovviamente quando servono a sensibilizzare per una causa comune.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

In parte e in forma non sempre corretta. Se ne potrebbe e dovrebbe parlare di più.

  1. Quali gli effetti dei Mass Media e New Media sulla comunicazione sociale?

L’avvento del digitale da un lato ha aiutato ad aumentare la platea di lettori, ma dall’altro ha portato anche la ricerca di un sensazionalismo che stona con il giornalismo.

  1. Esistono parole “giuste” per trattare la Comunicazione?

Sì, quelle che rispettano le vicende e i protagonisti delle storie trattate. È compito dei giornalisti sceglierle con accortezza.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

No. Una notizia diventa nuova ogni volta che si arricchisce di un elemento che la rende nuovamente importante per l’interesse collettivo.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Inevitabilmente una via di mezzo.

  1. Che significa essere un buon giornalista?

Raccontare la verità, verificare le fonti, analizzare gli elementi da ricostruire e raccontarli in maniera accessibile a tutti.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Ho partecipato alla seconda edizione, classificandomi al secondo posto con l’articolo sopra citato.

 

Intervista a Marta Occhipinti

Giornalista pubblicista e cultural free lance journalist, ha collaborato per diverse testate giornalistiche. Oggi, scrive per le pagine culturali del quotidiano la Repubblica. Laureata in Giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma, cura diversi uffici stampa nel campo di arte, società e beni culturali. Da sempre impegnata nel sociale, scrive di giornalismo comunitario, occupandosi di migranti e temi multiculturali. Nel 2020, riceve il Premio Giornalisti Under 35 al Festival del giornalismo culturale.

 

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

L’intera professione giornalistica è una sfida per chi ama questo mestiere. Ma, di certo scrivere di integrazione sociale e cercare di restituire storie di resilienza è oltre che una sfida in più, un impagabile paga di valori. 

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Non saprei. Ogni storia, ogni volto, ogni racconto restituito sulla pagina scritta si porta con sé tutto un mondo difficile da dimenticare. Ci sono particolari di migranti, loro mani, occhi, volti di ragazzi, storie di recupero post tumore, che non dimenticherò. 

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

La realtà di un caso o una storia premiante in valori che diventa esempio per tanti o argomento su cui riflettere. 

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Sì, ma non in tutte allo stesso modo. Ciò dipende ovviamente dall’agenda e dalla direzione editoriale di una testata, come sappiamo. 

  1. Quali gli effetti dei Mass Media e New Media sulla comunicazione sociale?

Spesso la teatralizzazione o la esasperazione. Spesso si parla di comunicazione sociale in modo assistenzialistico, ma non è quello che serve. La comunicazione sociale vuole giornalisti leali, imparziali e cacciatori di valori. 

  1. Esistono parole “giuste” per trattare la Comunicazione?

Le parole giuste si trovano sempre. La parola che preferisco è lealtà. 

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non sempre, alcune magari sono sotto i nostri occhi da tanto tempo, ma diventano nuove per noi quando le scopriamo. Non è mai troppo tardi per raccontare una storia o sviscerare reportage. Ciò che è nuovo, deve esserlo sempre agli occhi del cronista, principale stakeholder dell’opinione pubblica. 

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Credo ancora nel servizio pubblico. 

  1. Che significa essere un buon giornalista?

Rispettare la deontologia, divulgare notizie secondo la verità sostanziale dei fatti, essere scomodi. 

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Mi tengo sempre aggiornata sui premi giornalistici per under35. Dunque, via internet, al momento della pubblicazione del bando di partecipazione.