Intervista a Giulia Cristina Ghirardi

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Una volta una persona mi ha detto che il cambiamento è un mare. E che tutti noi, le cose facciamo, i gesti, i pensieri che coltiviamo non siamo altre che tante piccole gocce in questo grande mare.

Ecco io credo che non esista un’unica via, un’unica maniera in grado di sensibilizzare l’intera opinione pubblica. Esistono tanti pubblici, tante personalità, tante persone differenti. Così come esistono tante modalità che possono contribuire a diffondere un messaggio, un’idea, un cambiamento. Così sarebbe utopico pensare e credere che un Premio Giornalistico possa carezzare la sensibilità di ciascuno ma si può verosimilmente credere che abbia per lo meno la forza di imprimersi nella memoria di qualcuno acquisendo così la forza di contaminarne le azioni future.

Questo premio è un goccia, magari non sufficiente a cambiare le cose, ma estremamente necessaria a sensibilizzarle.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Mi è capitato di piangere facendo un’intervista. Una volta, non mi era mai successo prima di allora. Era il 5 marzo 2023. Parlavo con una ragazza di nome Hansini, una di quelle voci che non sono che dolore e passione allo stesso tempo. Lei è una delle fondatrici di un’associazione che si occupa del fenomeno della povertà di strada. Io allora stavo lavorando ad un servizio relativo al tema dell’homelessness nella città di Milano.

Lei raccontava della sofferenza, delle difficoltà che esistono intrinsecamente collegate a questa tematica. Mi ha parlato di tanti nomi che riempiono le strade di Milano e di come queste rimangano tragicamente prive di vita. Abbiamo parlato di come Milano sia scintillante, la città della fortuna, la città del progresso, di come sia in grado di sedurre e di come paradossalmente allo stesso tempo lasci tragicamente morire di solitudine molte delle persone che ne percorrono le strade.

E nei suoi racconti, nell’impossibilità forzata di trovarsi parte di un sistema non sempre giusto, nel sacrificio, nella dedizione delle persone nelle sue parole mi è sembrato di scorgere un po’ il senso dell’umanità: tragica e bellissima.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Un sociologo statunitense di nome Blumer ha scritto che i problemi sociali esistono soltanto quando vengono definiti come tali all’interno di una determinata società, che essi non esistono in quanto realtà oggettive poiché impattano persone diverse in maniere differenti.

Blumer queste cose le scrive negli anni ‘70 eppure credo siano ancora perfettamente applicabile alla vastità dei problemi sociali di cui il mondo è infetto oggi. Non credo che sia possibile parlare della sofferenza in maniera totalmente oggettiva. Siamo umani e in quanto tali, seppur in maniera differente, sentiamo, entriamo in relazione con le emozioni e i sentimenti che ci circondano. E credo che questa umanità sia da conservare e da usare per parlare delle tematiche sociali e tanto più della sofferenza. Credo che il punto sia piuttosto un altro: non lasciarsi andare a questo sentire, a questo soffrire ed empatizzare nel momento in cui si parla della sofferenza per non cadere in una sua strumentalizzazione o teatralizzazione. Non utilizzare la sofferenza per suscitare pathos forzato nel lettore, non utilizzarla insomma con finalità diverse da quella di advocacy di un problema in un’ottica di denuncia e sensibilizzazione. E per farlo è necessario andare in profondità, parlare della sofferenza attraverso chi veramente la esperisce e la vive sulla propria pelle e parlare attraverso le loro parole, guardare negli occhi il lettore attraverso i loro di occhi e smetterla di parlare secondo il nostro punto di vista, di parlare attraverso le nostre attorie ma iniziare a farlo attraverso le loro.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Difficilmente la comunicazione sociale trova oggi spazio nelle agende setting dei media contemporanei, relegata per lo più (e al massimo) nelle ultime pagine di un quotidiano o tra le ultime notizie di un telegiornale. Il fatto è che se si considerano le quattro grandi arene pubbliche (discorso giornalistico, discorso politico, mondo delle fondazioni e non profit e quello di internet e dei social media) la comunicazione sociale fatica a trovare spazio e tempo sopraffatta il più delle volte dalla competizione retta dalla politica, dell’economia o dallo sport.

Questo perché la comunicazione sociale è faticosa, richiede sforzo, è dolorosa e a nessuno piace prestare attenzione alla sofferenza dopo una lunga giornata di lavoro.

E al contempo manca chi questo mondo sappia raccontarlo. Manca chi sappia comunicare l’urgenza delle tematica, svestendola dalla fatica e sottraendo il lettore a questo sforzo cognitivo, in maniera moderna e innovativa. Perché credo che soltanto con una rivoluzione paradigmatica la comunicazione sociale potrà tentare di conquistare maggior spazio nel dibattito pubblico e così di sprigionare la sua forza di creare cambiamento.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Ritengo fondamentale seguire e narrare l’attualità e gli eventi più recenti della storia contemporanea perché non si può ignorare il cambiamento costante nel quale siamo immersi. Al contempo credo però imprescindibile che lo sguardo si volga necessariamente anche verso il passato. Perché, ricordando il detto Historia magistra vitae, soltanto ascoltando e guardando al passato si può pensare di poter costruire un futuro migliore. E questo diventa tanto più importante quando si parla di problematiche di tipo sociale. 

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Viviamo in un mondo comunicativo ibridato ed in costante evoluzione. E in un tale scenario inevitabilmente anche i mass media sono mutati e da prodotti di servizio pubblico sono diventati sempre più prodotti commerciali asserviti all’inevitabile confronto con il gusto e il desiderio del pubblico. È impensabile infatti oggi pensare di poter prescindere l’opinione dell’audience. Per questo quello che era pura informazione è diventata oggi, nella maggior parte dei casi, un prodotto di infotainment. Con questo non voglio dire che non esistano prodotti comunicativi di servizio pubblico quanto piuttosto sottolineare la difficoltà di riconoscere quali tra tutti continuino ad esserlo. La difficoltà oggi è comprendere i cambiamenti sostanziali che sono in atto e cercare di trovare un equilibrio che rispetti questi cambiamenti pur mantenendo quell’integrità sostanziale e connatura che dovrebbe appartenere alla professione giornalistica nel fare informazione, nello svolgimento del proprio pubblico servizio.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Credo che sia assolutamente possibile fare informazione senza necessariamente creare allarmismo. Questo però sta a chi l’informazione la produce più che all’informazione stessa. Ogni notizia può essere narrata e per ognuna di esse esiste un equilibrio con cui farlo. Sta all’abilità e al buon senso di ogni comunicatore cercare quell’equilibrio e seguirlo nel rispetto della notizia quanto, al contempo, nel rispetto del proprio pubblico per offrire un’informazione quanto più giusta e veritiera possibile.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Attraverso alcuni miei colleghi di lavoro