Intervista a Martina Dei Cas

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Sì. Anzi, penso che un Premio Giornalistico di questo tipo svolga una doppia attività di sensibilizzazione. Da un lato, informando l’opinione pubblica su temi spesso sconosciuti, evitati o trattati ancora troppe volte con un’ottica pietista e approssimativa. Dall’altro, offrendo alle testate giornalistiche un prezioso momento di riflessione sul perché non ci sia un’attenzione costante al tema della malattia o della disabilità. Spesso, infatti, nelle redazioni di giornali anche importanti, ci si ripromette di dare il giusto spazio a questi argomenti, ma poi la routine quotidiana fa sì che questi articoli difficilmente finiscano in copertina o abbiano tanto spazio quanto altri, magari più curiosi e “notiziabili”, ma purtroppo anche più superficiali.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia che mi ha segnato di più è quella che finora non ho mai avuto l’occasione o forse il coraggio di raccontare e cioè quella del mio papà, che dal 2000 convive con due focolai di tumore celebrale e che dopo un secondo intervento chirurgico nel 2013 ha visto la sua vita cambiare. Non può più lavorare, gli è rimasto un difetto del linguaggio ed è fragile come una carta velina. Mi piacerebbe, un giorno, trovare le parole giuste per descrivere quanto la vita della nostra famiglia sia cambiata in questi ultimi anni, documentare l’empatia che va persa nelle pieghe della burocrazia, ma anche la sua forza e il suo attaccamento alla vita, che è un grande esempio per tutti noi. Un altro caso che porto nel cuore è quello di un ragazzo con la sindrome dell’incisivo solitario, che da intervistato, quindi da spettatore in qualche modo passivo, è diventato intervistatore e ora ricopre un ruolo attivo come articolista del nostro bimestrale. Accompagnarlo nel percorso di redazione accessibile affinché tirasse fuori la sua voce e leggere, mese dopo mese, i suoi contributi è per me una grande gioia. Tra le altre storie che mi hanno fatta riflettere c’è quella di Michele Oberburger, un ragazzo con autismo non verbale che grazie alla dedizione del suo papà Roberto è diventato un campioncino di trial – disciplina in cui corre coi normodotati – e sta partecipando a un tirocinio professionalizzante come aiuto cuoco. E ancora la storia che vi ho proposto. Matteo Faresin, infatti, ha solo qualche anno più di me, e pensare come la sua vita sia cambiata drasticamente in pochi mesi e come – nonostante il suo corpo sia ormai immobile – la sua mente continui a partorire nuove idee creative non lascia certo indifferenti.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Sì. È un esercizio che a volte riesce meglio di altre, ma è sempre l’obiettivo a cui tendere.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Sì. Anche se a volte, purtroppo, si tratta di uno spazio strumentale o strumentalizzato.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Sì e no. Se da un lato è importante raccontare nuove storie, infatti, dall’altro è fondamentale dare seguito a quelle di cui ci siamo già occupati. Non accendere, insomma, solo riflettori spot sui trend del momento, ma evitare che si spengano le luci sulle vicissitudini di chi, magari nell’ombra, sta combattendo piccole grandi battaglie che potrebbero migliorare la qualità della vita loro e di altri.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Dipende. Per vocazione, sono più vicina all’idea di una comunicazione istituzionale semplice, efficace, etica e ben fatta e mi piacerebbe pensare, in modo naïve, che il mondo dei media vada in questa direzione. Ma credo che, con riferimento alla domanda, non si tratti di demonizzare i prodotti commerciali o esaltare la responsabilità informativa delle testate nei confronti del pubblico generalista. Penso che queste due anime possano e debbano coesistere. L’importante è che la distinzione sia chiara per chi legge, vede o guarda il servizio. È un publiredazionale? Allora forse andrebbe dichiarato. O ancora…io giornalista ho un conflitto di interessi su questo specifico tema? Se sì, forse dovrei astenermi dallo scriverne…

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Sì. Gli allarmismi creano notiziabilità, morbo, clic …. E questo vende. Penso che il nostro sforzo come categoria professionale – e come persone prima di tutto – dovrebbe essere quello di non lasciarci trascinare da queste dinamiche, ma di scrivere sempre con responsabilità, verificando i fatti e presentandoli nel modo meno sensazionalistico possibile. Diversa cosa sono gli allarmi sociali. Penso infatti che una buona informazione dovrebbe farli scattare per contribuire attivamente a prevenirne o ridurne gli effetti negativi.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite il web.