Intervista a Marco Di Vincenzo

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È una grande e bella sfida, direi. Sensibilizzare l’opinione pubblica su diversi temi, raccontando la vita e le storie delle persone, credo sia una delle cose più appassionanti che un giornalista possa fare.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia di Giulia Vernata, che ho raccontato nel servizio inviato per il concorso, è una delle più belle che ho avuto la fortuna di incontrare. Una ragazza di appena 22 anni che, sofferente sin dalla nascita per una forma piuttosto aggressiva del morbo di Chron, ha trovato nello sport la sua ragione di vita. Durante l’intervista, mi ha raccontato che i medici le avevano dato una prognosi di soli 3 o 4 anni di vita: un colpo durissimo per una ragazzina così giovane. Eppure, ha raccontato che la forza di volontà e la passione l’hanno aiutata a superare tutto. “È la mia vita e mi rende felice”, mi ha detto. Lo sport è stato più forte del dolore e della malattia.

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Valgono le regole d’oro per il buon esercizio del diritto di cronaca: verità, continenza, pertinenza. Secondo me bisogna raccontare tutto quello che può interessare davvero il pubblico e tutto quello che può contribuire a migliorare la società, sempre nei limiti del buon gusto e della verità. Occorre, poi, che sia dato più spazio alla buona informazione, raccontando tutti i risvolti positivi delle vicende e mettendo in luce le soluzioni, non solo i problemi.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La Comunicazione Sociale oggi dovrebbe trovare ancora più spazio sulle testate, specialmente in Italia. In un periodo come questo, dove i giornali e le tv sono inondati dalle notizie in tempo reale sui numeri della guerra in Ucraina e della pandemia, talvolta sarebbe bene ridurre la velocità, fermarsi e riflettere, raccontando anche il lato buono delle cose. Bisognerebbe lasciare più spazio e tempo a quello che viene chiamato constructive journalism. Come detto, non bisogna parlare solo di fatti negativi, ma anche raccontare come le persone, le istituzioni e le comunità agiscono per dare risposta ai problemi sociali. Bisogna raccontare di più il buono e il bello che c’è.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non per forza. Personalmente sono contrario all’approccio da breaking news a cui, sempre più spesso, ci stiamo abituando. Prima le tv all news e ora le notifiche push sugli smartphone ci hanno costretto a rincorrere a tutti i costi la notizia dell’ultima ora. Una gara insensata a chi arriva prima. Penso che sia  bene rallentare e trovare quelle notizie – non per forza nuove – che possono contribuire a renderci persone migliori.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate, oggi, sono sempre più simili a prodotti commerciali, è vero. Credo che sia un effetto, ahinoi, della crisi dell’editoria – soprattutto della carta stampata – e ai problemi legati all’economia del periodo storico che stiamo vivendo. Questo non significa, però, che non esistano giornali o tv indirizzati alla funzione di servizio pubblico.

 7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Per me, essere un buon giornalista significa raccontare le storie delle persone, facendo emergere e illuminando il lato positivo che c’è nella società. Essere un buon redattore significa anche aiutare e stare vicino alla gente. Credo che un giornalista abbia una funzione sociale importantissima, che molto spesso non gli viene riconosciuta. Anzi, talvolta la sua figura è vista in malo modo o del tutto screditata. Non dovrebbe essere così. Il giornalismo non è solo il cane da guardia della democrazia, come si dice, ma anche linfa vitale per il buon funzionamento di una società.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite il web, attraverso il sito del Federazione Nazionale della Stampa Italiana.

Intervista a Fabio Di Todaro

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sì, pur essendomi occupato nella mia carriera prevalentemente di informazione medico-scientifica. Oltre che per una gratificazione professionale, ritengo che i premi rappresentino sempre un’occasione per mettere il proprio operato alla prova.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ce ne sono diverse e riguardano soprattutto pazienti oncologici (come nel caso della paziente intervistata per la TgR). Di seguito riporto i link dei servizi che ritengo più significativi, in tal senso:

https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/oncologia/mamme-dopo-il-cancro-primo-nato-in-italia-da-trapianto-di-tessuto-ovarico

https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/oncologia/la-storia-di-sabrina-cosi-affronto-il-tumore-al-seno-durante-la-pandemia

https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/oncologia/giovanna-e-il-suo-tumore-mi-piaccio-di-piu-dopo-la-malattia

https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/oncologia/quel-tumore-scoperto-grazie-una-carezza

https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/oncologia/grazie-allimmunoterapia-ho-imparato-a-danzare-col-mio-cancro

https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/pediatria/cosi-abbiamo-ricostruito-la-pelle-di-un-bambino-farfalla

3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Tutto ciò – anche in ambito medico-scientifico – che risponde ai requisiti del diritto di cronaca fissati a più riprese dalla Corte di Cassazione. Ovvero: l’interesse pubblico di una notizia, la continenza formale con cui la si espone e il rispetto della verità sostanziale dei fatti.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Al di là di alcune realtà editoriali ad hoc (penso a Vita e all’inserto Buone Notizie del Corriere della Sera), c’è un interesse crescente da parte delle testate a dare spazio a questo genere di informazione. Non ritengo che ci siano parole giuste, purché ci si attenga ai principi sopra enunciati. Le storie vanno raccontate, entrando nella vita delle persone in punta di piedi e restituendo a chi legge tutto ciò che può essere utile. Nessun altro dettaglio superfluo per lui, ma che può essere molto delicato per il protagonista: soprattutto quando si parla di salute.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

La novità è uno dei criteri con cui viene valutata una notizia, per decidere se metterla in pagina (in senso lato: carta, web o tv) o meno. Uno dei criteri, però. Non l’unico.

 6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Ve ne sono di entrambi i tipi. La RAI, per esempio, svolge un servizio pubblico di informazione. Rimanendo all’ambito dell’informazione sulla salute e avendoci lavorato tanti anni, lo stesso posso dire per una realtà non profit come Fondazione Umberto Veronesi. Tecnicamente, tutte le altre testate offrono un prodotto commerciale. Ciò non equivale, naturalmente, a un giudizio sulla qualità dell’informazione offerta.

 7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Raccontare la verità sostanziale dei fatti. Ovvero quella che si riesce a ricostruire dopo aver fatto tutte le verifiche possibili prima di dare una notizia, che in alcuni casi può non combaciare esattamente con quanto realmente accaduto. Soltanto dopo aver lavorato in questo modo, di giorno in giorno, un giornalista può affermare di aver svolto correttamente il proprio lavoro. Indipendentemente dal genere di informazione di cui si occupa: dalla cronaca all’informazione scientifica, dalla moda all’informazione economico-finanziaria.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Attraverso la Rete.

 

Intervista a Giorgia Colucci

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Partecipare a un Premio Giornalistico su questo tema è una sfida, perché è sempre una sfida trovare il modo e il tono più giusto e rispettoso per raccontare la disabilità. Vale però la pena di confrontarsi con esso per crescere a livello giornalistico e di società.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia dell’atleta paralimpico Giorgio Napoli mi ha colpito, per la forza del suo protagonista. Consapevole e autoironico, è riuscito a raccontare le sue debolezze e ciò di cui va fiero in maniera normale. Senza eccedere nell’autoesaltazione o nel pietismo.

3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Oltre alle notizie e ai fatti, anche le storie devono essere oggetto di approfondimento e di informazione. Spesso forniscono punti di vista inusuali sui temi trattati dalla stampa in maniera “fredda” o stereotipata.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La Comunicazione Sociale trova spazio solo su alcune testate purtroppo. Spesso viene sommersa da altri temi urgenti. Quando ne si parla spesso si eccede nell’esaltazione o nello stereotipo. Bisogna invece cercare di capire, con le persone coinvolte, qual è il modo giusto di parlarne, gli aspetti da mettere in luce, i servizi e i disservizi che al momento siamo in grado di offrire. Solo così è possibile avvicinare il tema ai diversi lettori.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Le notizie possono non essere nuove, ma può essere nuovo il modo in cui se ne parla, o gli aspetti che il giornalista sceglie di raccontare.

 6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate di oggi offrono un servizio pubblico di informazione. Non si può però negare che, anche le più rinomate, siano in parte condizionate dalle logiche del mercato e dalle richieste di editori e inserzionisti.

 7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Per me essere un buon giornalista significa avere rispetto per ciò che si racconta. Ciò si traduce nell’attenersi ai fatti, parlare con i protagonisti, cercare di capire e spiegare al meglio ciò che avviene nel mondo, rimanendo lontani dai pregiudizi. Significa anche lasciarsi stupire dalle storie e dalla realtà.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Sono venuta a conoscenza del premio tramite il Master in giornalismo IULM

Comunicare il rischio e raccontare l’incertezza: dalle fonti alla cronaca

Mirella Taranto – Capo Ufficio Stampa Istituto Superiore di Sanità

“Volevo iniziare con un ricordo di quando ero giovane come loro (i ragazzi di un corso di giornalismo che hanno partecipato all’evento in presenza, ndr.) e mi veniva detto: ma tu cosa vuoi fare? La giornalista scientifica, sembra un ossimoro dire di voler fare giornalista scientifica! In queste parole si racchiude un po’ il senso dell’intervento che starò per fare. Ho vissuto in prima persona la pandemia dal punto di vista della comunicazione dei vari dati. Ma in realtà comunicare la pandemia è significato comunicare nell’incertezza: comunicare qualcosa di scientifico che è assolutamente difficile da tradurre in un format giornalistico, che è un format binario, di realtà. Ho fatto un’analisi su quello che è stato il nostro canale social, che abbiamo molto potenziato come gruppo e portato da 4mila a 80 mila followers. Abbiamo un canale che oggi rispetto ai nostri pari in Europa è tra i più seguiti. Abbiamo un numero di follower che oggi è superiore a quello dei Centri di controllo malattie europei. È stata una grande fatica, una grande soddisfazione, ma anche una grande lezione. Mi faceva piacere raccontare l’incertezza di una comunicazione che vuole raccontare l’epidemia: una incertezza che ha interessato anche il mondo dei social. Solo il 20 per cento della popolazione adulta ha strumenti per leggere, scrivere e calcolare, necessari per orientarsi nella società. Il giornalismo è un’offerta di domande o una proposizione di risposte? Siamo tra l’altro tra le popolazioni – siamo anche dietro la Spagna – che hanno meno alfabetizzazione scientifica. Siamo dei grandi umanisti, ma quando raccontiamo quello che la scienza ci dice di una epidemia lo andiamo a raccontare con degli strumenti ed un linguaggio che non è altissimo. L’incertezza è il comune denominatore che accompagna fasi lunghe, sia nella comunicazione di crisi che nella comunicazione del rischio. Le incertezze, però, per creare un rapporto di fiducia con il pubblico devono essere riconosciute e descritte. Un giornalismo che non si sforza e non ha il coraggio di descrivere l’incertezza è un giornalismo che non aiuta, soprattutto in una fase di pandemia. Questo non vuol dire che la comunicazione debba essere incerta e ve lo dico dal mio punto di vista: di una istituzione in cui, quando io dico che di un tema parla un gruppo e non parla un altro, questo non significa censurare un gruppo di ricerca o un altro punto di vista scientifico; significa che nei tempi di pandemia bisogna dare una comunicazione univoca anche nel rispetto della popolazione. Significa semplicemente prendersi la responsabilità, in quel momento, di dare una direzione. L’atteggiamento diverso lo può avere una università, una comunità scientifica, non lo può avere una istituzione della sanità pubblica, che deve indirizzare i cittadini. Il nostro sistema cognitivo gestisce male l’incertezza. La lingua dei giornali gioca su questo. Ma lingua della scienza ha un solo significato. La lingua ordinaria – che è quella con cui leggiamo e decodifichiamo i messaggi – è quella che sfrutta l’aspetto connotativo di una parola, con un nucleo e una serie di aspetti. Le sfumature semantiche, però, nella scienza non esistono. La nostra è una comunicazione complessa e per questo bisogna calibrare bene il messaggio. Vi faccio un esempio: abbiamo avuto una serie di interviste, scelto di non andare nei salotti televisivi, dato messaggi chiari, univoci. Ma anche in un tipo di comunicazione equilibrata c’è ad esempio la differenza fra la risposta di un professore e la titolazione – (la relatrice fa alcuni esempi mostrando articoli pubblicati in una slide nel video al minuto 9 al minuto 10.40, ndr.) – Quando siamo andati sui social abbiamo avuto a che fare con i complottisti, con una serie di comunicazione non verificate (ciò che distingue un giornalista da un blogger). Non è stato facile. L’istituzione pubblica deve avere però i social per ottenere ascolto, perché ormai l’informazione tradizionale è diventata di nicchia. Se si deve parlare di un’epidemia, i ragazzi si captano sui sociali. Bisogna quindi sforzarsi per esserci. Allora, abbiamo cominciato a utilizzare le grafiche, per l’importanza del linguaggio visivo e ci siamo attrezzati da quel punto di vista diventando un grosso gruppo che utilizza tanti mezzi. Abbiamo iniziato a lavorare facendo visualizzare il tema con infografiche, ad esempio come quelle sui possibili pericoli o meno dei vaccini. Leggere i numeri non è una cosa semplice, anzi. Soprattutto quando si vogliono proteggere persone fragili, anziani, donne in gravidanza. Abbiamo smontato uno per uno i falsi miti, ottenendo un buon riscontro sulla stampa. Questo, anche grazie al rimbalzo dei social. Siamo stati aiutati a salire come followers, ma se non avessimo alimentato questo social con contenuti non saremmo riusciti ad avere questi risultati. Twitter per noi è il canale più seguito, fra tutti quelli aperti. Tutti stanno crescendo, ma Twitter ha una differenza in termini di target. Twitter è proprio uno strumento da ufficio stampa. Con Twitter avevo il contatto con la casalinga e con l’impiegato. Con Twitter contatto i miei colleghi e parlo con tutti quei gruppi attivi, non come i complottisti con i quali parlare è inutile, ma con gli esitanti, con coloro che hanno il diritto di esitare: quelle persone che chiedono informazioni per poter essere messe nelle condizioni di scegliere. Quello è il nostro target. Facebook, invece, è un’altra cosa: comincia a servirsi più di storytelling ed ha un’interazione a livello emotivo. Instagram è quello che fatica di più, perché è un canal fashion, che però ha un andamento oscillante e risente maggiormente delle polemiche anti vaccino. Tuttavia continueremo, perché stiamo organizzando ad esempio un bell’archivio di immagini. Su Instagram abbiamo fatto anche i quiz, per cercare di elevare l’alfabetizzazione scientifica e di aumentare la conoscenza di ciò che sta dietro alle cose, stimolando la competizione. I vaccini sono sicuri e efficaci? Bisogna capire quali sono i farmaci e cosa fare rispetto all’evidenza. Questo è il nostro compito. La scienza indica i fatti e risponde ai fatti. La politica decide cosa fare in base alle evidenze. È stato molto difficile spiegare ai giornalisti in questi mesi, che quando volevano sapere se chiudevano o meno i cinema o se il green pass fosse giusto averlo o no, che non potevamo rispondere a queste domande. È stata la mia fatica maggiore. Non è giusto, non è democratico, sarebbe tecnocratico. Prendiamo delle evidenze, diciamo i trend e spieghiamo quali sono i rischi, con quel margine di incertezza che siamo costretti a comunicare. È alla politica, al ministero e ai governanti che bisogna chiedere se i teatri aprono o chiudono. Entrambe le cose richiedono trasparenza e responsabilità. Quando riportiamo una stima ottenuta da un’analisi statistica, stiamo riportando una estrapolazione della realtà con dei margini di incertezza, poiché si tratta sempre di interpretazioni di dati. Più informazioni si pubblicano, più è difficile avere un valore numerico che ci racconti la verità. Penso, sostanzialmente, che nella dichiarazione dell’incertezza dobbiamo costruire e crescere tutti. Dobbiamo aprire un varco in quel margine di incertezza, dove far crescere la fiducia fra le istituzioni, i giornalisti e i cittadini, fra chi produce, chi narra, chi ascolta”.

La forza delle immagini per raccontare

Vincenzo Morgante – Direttore Tv 2000

“Grazie per l’invito a questo appuntamento, davvero un evento diverso da molti altri, un percorso di fecondità che si è andato consolidando. De Bortoli nel suo intervento ha reso giustizia a quanti credono che raccontare il bene da parte dei giornalisti non significhi far parte di un settore del giornalismo di serie B. Raccontare il bene comporta una competenza e una responsabilità al pari di qualunque altro svolga questo mestiere. Non tutti la pensano così. L’idea diffusa è che occuparsi di alcuni temi – e quindi temi come il capitale sociale – significhi occuparsi di temi leggeri. In realtà stiamo parlando di un fenomeno fondamentale per la tenuta di un Paese. Credo che anche per i giovani colleghi del master sia stata un’occasione importante e cbhe abbiano ricevuto stimoli significativi per un settore che richiede attenzione e competenze, anche di natura giornalistica, un ambito per il quale c’è ancora tanto spazio. De Bortoli ci ha ricordato anche i criteri per raccontare questo settore, che sono anche i criteri della professione: la competenza, la serietà, la credibilità, il non fermarsi alla verità pubblica ma andare oltre. Gli stessi criteri che devono accompagnare chi si occupa di economia, chi si occupa di cronaca nera, chi si occupa di sport. Sono grato di questa sottolineatura. Così come concordo con quanto ci ha detto Ruffini: una fotografia che una settimana prima si era deciso di non pubblicare, che poi una settimana dopo si decide di pubblicare. Dietro al lavoro giornalistico c’è tanto impegno. C’è una riflessione anche dietro la scelta di una foto. Si mettono in campo competenze, sensibilità, conoscenze: anche questa mi è sembrata una bella lezione di giornalismo. “Vieni e vedi”, dice l’apostolo Filippo nel brano del vangelo di Giovanni. Papa Francesco lo suggerisce per ogni espressione comunicativa che debba essere limpida e onesta: nella redazione di un giornale come nel mondo del web, nella predicazione ordinaria della Chiesa come nella comunicazione politica e sociale. A mio avviso una delle sfide per rifondare il giornalismo (soprattutto oggi che la tesi pandemica ha accentuato certe cattive abitudini del fare giornalismo che bisogna spazzare se vogliamo salvare quella che non solo è il nostro mestiere, ma è servizio sociale) è andare, vedere e poi raccontare con ogni mezzo che si ha a disposizione. Quindi uscire dalle redazioni, dagli studi televisivi e radiofonici, consumare la suola delle scarpe, far sì che tutto ciò torni ad essere centrale nella nostra professionalità. Oggi il viaggio è spesso telematico, ma se nell’ultimo anno e mezzo è stato una necessità per colpa della pandemia è giunto il tempo di tentare di invertire la rotta: se vogliamo evitare – e vogliamo farlo – un’informazione appiattita (con sempre le stesse fonti dirette) dobbiamo tornare alle origini … e naturalmente adeguando forze e mezzi ai tempi, perché c’è un problema a monte, che va oltre la volontà dei direttori, che è quello delle risorse nel mondo dell’informazione; un problema che si fa sempre più complicato. Quando possibile dobbiamo condividere: è sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso un po’ la vita. Questa è l’idea del grande Ryszard Kapuściński, un mito del giornalismo mondiale, che al giornalismo, alle sue regole e alle sue difficoltà ha dedicato un libro molto bello, dal titolo “Il cinico non è adatto a questo mestiere”. Ecco, noi al Tg 2000 come nelle altre redazioni cerchiamo di fare informazione attraverso le parole, i suoni – quelli che i tecnici chiamano effetti – e anche e soprattutto le immagini: vedere, guardare, osservare, mostrare, condividere … e nei tempi in cui l’informazione ha trovato la via veloce dei social, tolta la tara della mancanza di verifiche, che giustamente lamentiamo in merito proprio ai social, è proprio attraverso le immagini che ci relazioniamo in prima battuta. Le persone utilizzano le immagini come strumenti per relazionarsi nel mondo, perché la comprensione è più immediata e perché restano più impresse … e peraltro sui social fanno più visualizzazioni. Un esempio è già stato citato da Paolo Ruffini: è l’immagine di Papa Francesco che cammina da solo sul sagrato di piazza San Pietro il 27 marzo dello scorso anno. Un altro esempio significativo è l’immagine del presidente della Repubblica Mattarella (c’è una bellissima foto ancora pubblicata sul sito del Quirinale) mentre si muove tra le macerie di Amatrice. Ecco, in quella foto, accanto a lui c’è un Corazziere, che presta di solito servizio al Quirinale: è un’immagine forte, se vogliamo anche simbolica, di uno Stato, dell’intera comunità nazionale, che rende omaggio alle vittime del sisma. Si tratta – questi come altri esempi che potremmo citare – di momenti che interpellano noi giornalisti, uomini e donne di comunicazione, in questo caso nel campo della televisione, a rivalutare sempre più le immagini come un messaggio forte, completo e – si spera – esaustivo. Nei servizi televisivi spesso sentiamo troppe parole pronunciate da un giornalista e meno effetti audio e video: e questo apre un capitolo del protagonismo di noi giornalisti sulla notizia stessa. Ha più valore l’immagine del giornalista che firma il servizio o la notizia, qualunque essa sia, che si sta comunicando? Rivendicando che la firma conta, che la bravura, la competenza, la serietà, la capacità di analisi del giornalista siano comunque fondamentali e imprescindibili, però credo che la notizia debba tornare ad essere il nostro vero datore di lavoro. Non possiamo dimenticare, o meglio dobbiamo ogni giorno ricordarci, che il nostro mestiere, tra le sue svariate funzioni, comprende quello di comunicare in modo chiaro e semplice alla gente. Siamo il mezzo attraverso il quale portiamo i fatti accaduti anche a chilometri di distanza nelle case delle persone. Abbiamo, insomma, una grandissima responsabilità. Fin dal primo giorno del mio insediamento alla guida di Tv 2000 ho insistito sul concetto che anche una emittente come la nostra può e deve fare servizio pubblico … e fare servizio pubblico significa parlare a tutti, senza distinzione, senza preoccuparsi dell’età, degli interessi, offrendo contenuti per tutti, credibili. È ciò che per esempio cerchiamo di fare a Tv 2000, con la speranza che ciascuno possa trovare qualcosa che gli interessi, oppure trovare delle sorprese che gli stimolino interessi, per convincerlo quindi a rimanere a guardare la nostra tv. Ecco, per fare ciò dobbiamo tenere monitorati gli andamenti e soprattutto le nuove sfide che i media pongono oggi. Sicuramente il peso nella società della televisione è notevole, ma è cambiata – come sappiamo e ancora più cambierà nei prossimi anni – la modalità di fruizione … e quindi anche i contenuti dovranno adeguarsi e si stanno già adeguando. Vedi il fenomeno delle smart tv, dello streaming, della trasmissione via Internet. La tv vede oggi ridotta la propria sacralità. “Lo hanno detto alla tv” non è più una garanzia, anzi, spesso è altro. Più frequentemente si sente dire ormai: “L’ho letto e l’ho visto su Internet”; “L’ho visto, l’ho letto su Instagram, su Twitter”. L’evoluzione tecnologica ha reso necessario un ripensamento del ruolo della tv, oggi al pari di Internet come mezzo di comunicazione. Ma è probabile che i due mass media continueranno a convivere, accanto, per lungo tempo, proprio perché hanno una struttura differente e caratteristiche che li rendono perfettamente integrabili fra di loro. L’evoluzione-cambiamento tocca due dimensioni: il tempo e lo spazio. Internet, attraverso lo streaming, per esempio ha regalato all’offerta televisiva la possibilità di essere al servizio di chiunque, in qualunque momento e in qualunque luogo: un’evoluzione che muta radicalmente anche il ruolo del telespettatore che diviene, lo sappiamo, fortemente attivo. In questa nuova veste il telespettatore assurge a guida di una comunicazione che diventa tematica e si divide e si differenzia in tante nicchie diverse per interessi e argomenti. L’intreccio di vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, dunque, ci induce ad una riflessione: la tv come il web richiede una quantità di immagini sempre maggiore e i giovani, purtroppo – anche se in pandemia qualcuno è tornato al gusto e al piacere della lettura – si informano solo attraverso i social e spesso cercano solo quello che si può vedere e non leggere. Allora il nostro lavoro richiede a tutti noi di essere sempre più specialisti delle immagini. Oggi i particolari fanno la differenza tra un video visto da milioni di persone e un altro che si perde nel grande mare del web. Allora “andare, vedere, ascoltare”, come ben evidenzia il titolo del convegno richiede a noi comunicatori una crescita di qualità sempre più al servizio della comunità, sempre più al servizio degli altri”.

Dal potere al servizio. “Ripensare” il giornalismo nel tempo della cultura digitale

Massimiliano Padula – docente Università Lateranense e Presidente Copercom

Elaborare una riflessione sul legame tra giornalismo/informazione e cultura digitale non può prescindere da un discorso centrato sulla complessità dello scenario contemporaneo i cui fenomeni (compreso quello informativo) sono in continua trasformazione. Le conclusioni a cui si arriverà saranno, quindi, parziali e certamente mutevoli in un futuro prossimo. Alla luce di questa premessa, il legame succitato (informazione-digitalizzazione) merita di certo una riconsiderazione se si tiene conto della rimodulazione dell’universo giornalistico negli ultimi decenni: il riferimento non è esclusivamente alla diffusione delle tecnologie digitali e alle piattaforme social (che hanno certamente riposizionato la riflessione intorno alla questione). L’accento è invece da porre sulla cornice sociometrica che vede – come riportato dall’Osservatorio sul giornalismo dell’Agcom nel 2020 – “gli ultimi venti anni […] contraddistinti, in Italia, da un deciso invecchiamento della popolazione giornalistica, con la progressiva scomparsa di under 30 e una forte riduzione di under 40.” Si tratta di un rapporto – quello dell’Autorità garante delle comunicazioni – che ben fotografa la situazione giornalistica italiana ed evidenzia come “più di quattro giornalisti italiani su dieci rientrano nella categoria freelance” (costituita da autonomi e parasubordinati) e confermano di conseguenza “le profonde e strutturali differenze in termini di reddito tra questi ultimi e i dipendenti”.

(CONTINUARE A) INFORMARE TRA MOTIVAZIONE, DONO, GARANZIE E INSTABILITÀ

Non ci si soffermerà ulteriormente sulle caratteristiche proprie di ognuno delle due categorie. È importante, invece, fare una sottolineatura su alcuni aspetti che caratterizzano l’impatto dell’informazione sulla società.

Il primo è la motivazione.

L’aspetto motivazionale continua a essere alla base del lavoro giornalistico anche per coloro (sempre di più) che svolgono la professione nonostante condizioni di precarietà e basso reddito. Potremmo definirli giornalisti idealisti”. Si tratta di coloro che nonostante manchino di garanzie contrattuali e retribuzioni dignitose (per molti di loro il giornalismo non è prima attività), attribuiscono maggiore importanza all’opportunità di essere utili alla collettività o al grado di autonomia oppure alla possibilità di avere una qualche influenza sull’agenda politica.

È interessante notare come lo sviluppo di quella che possiamo definire una “informazione idealista” rimandi, in un certo senso, a un giornalismo animato da ciò che Jacques Godbout definisce lo spirito del dono, che rende “ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”. Il dono, dunque, è la seconda variabile emergente di una informazione libera, priva di garanzie di tipo economico e che si basa sulla solidarietà creando legami tra le parti coinvolte. L’analisi del sociologo canadese può essere presa in prestito per riflettere ancora una volta sull’informazione oggi. Una informazione che si fonda su un concetto di libertà allargata (non solo garantita dal diritto di libertà) ma anche dalla moltiplicazione degli spazi e dei tempi informativi grazie alle logiche del web. Ancora, lo scenario informativo è sempre meno strutturato in termini tradizionali. Siamo di fronte a uno scenario piuttosto semplificato, in controtendenza con l’aumento esponenziale delle situazioni di complessità a livello sociale: esistono – come si è scritto – giornalisti garantiti (dai contratti nazionali o da altre forme contrattuali a loro tutela) e giornalisti instabili sia per l’incertezza relativa alle dimensioni proprie della professione (contratti, retribuzioni, altre garanzie) sia per l’indeterminatezza della tradizionale prassi giornalistica che è sempre più fagocitata e orientata dalle logiche della cultura digitale. Entrambi non rifiutano le opportunità, lo evidenzia la ricerca Agcom parlando di “normalizzazione ibrida”) offerte dal digitale, ma con motivazioni differenti. Se per i garantiti che lavorano per media tradizionali un profilo social è un’opportunità addizionale alle consuetudini assicurate del proprio mestiere, per gli instabili (secondo i dati del Rapporto la maggioranza opera per testate online) diventa spesso la sola strada per affermare la propria professionalità. Un’ultima istanza che contraddistingue l’impatto dell’informazione sulla società è il dato anagrafico dei professionisti dell’informazione. Siamo di fronte a una informazione vecchia nel duplice significato che ci offre la lingua francese: quello di âgée, nel senso di anziano, fatta strutturalmente e istituzionalmente da non più giovanissimi; e quello di ancien, ovvero di qualcosa che un tempo era operativo e funzionale e, adesso non lo è più (obsoleto, si direbbe in italiano). Alla luce di queste premesse viene da chiedersi ancora quale (e quanto) sia l’impatto della informazione (intesa come professione giornalistica) sulla società.

INFORMAZIONE AL BIVIO (O IN VICOLO CIECO): IDENTITÀ, TEMPI, SPAZI DEL GIORNALISTA

Probabilmente fino a qualche anno fa, una riflessione sull’impatto dell’informazione sulla società avrebbe avuto presupposti differenti. Avrebbe prevalso un atteggiamento di apertura, di entusiasmo, di passione e positività verso il futuro, sollecitato dalle novità della cosiddetta “rivoluzione digitale”. Le valutazioni a riguardo sarebbero state dirette alle sfide del giornalismo nella nuova cultura del web, alla possibilità di abitare nuovi spazi e di esplorare nuovi linguaggi. Oggi, ci si ritrova a riflettere, invece, di scenari e sfide differenti, con margini di preoccupazione, d’insicurezza, di non consapevolezza di quel che sarà. Questo stato d’animo non può essere scisso dall’adesso. Contemporaneità oggi significa anzitutto “incertezza”, ossia quella conditio humana – scrive Ulrick Beck – nella quale “le barriere delle competenze specializzate cadono”. Questo è ancora più evidente nella contemporaneità (post) pandemica nella quale il ruolo dell’informazione è stato centrale a livello di copertura e fonti, ma anche – come è ormai triste realtà – nei termini di disinformazione, misinformazione e infodemia. L’incertezza quindi investe un mondo dell’informazione profondamento destrutturato da un punto di vista identitario, dei suoi tempi e dei suoi spazi. Questo decostruzione non riguarda naturalmente soltanto l’ambito giornalistico ma, più in generale, investe la società e i suoi innumerevoli fenomeni. È innegabile, infatti, che il web (inteso come tecnologia, ma anche come apparato culturale generatore di percezioni, simboli, narrazioni e rappresentazioni specifiche) abbia sovvertito l’immaginario consueto e delineando nuove pratiche e nuovi formati socio-culturali. La professione giornalistica tende a ibridarsi sempre più con le professioni del web, e molti giornalisti iniziano a impiegarsi in attività di social media management e content management. Questo processo porta certamente a una ridefinizione dell’identità del giornalista.

L’IDENTITÀ DEL GIORNALISTA

La cultura digitale, infatti, ha annullato alcuni paradigmi archetipici del giornalismo de-professionalizzandolo (in senso scolastico, deontologico, ordinato), ossia spogliandolo di quell’etichetta di esclusività che lo ha sempre contraddistinto. Il rimando, in questo caso, è abbastanza evidente. Se con i media tradizionali (possiamo definirli media offline) il rapporto creatore/fruitore era decisamente sbilanciato sul primo che si poneva come metamedium (ovvero mediatore dello strumento tecnologico) assoluto, nel caso dei media digitali questo legame trova inaspettatamente un equilibrio stabile. Da qui scaturisce una rimodulazione dei ruoli che, in alcuni casi, destabilizza, sovverte il certo, spalanca spiragli di novità. Si pensi a come negli ultimi anni si sia trasformato totalmente il contesto competitivo di un giornale. Da ristretto, limitato ad alcuni competitors definiti (e quindi riconoscibili e controllabili), si è allargato, ovvero ha sciolto i suoi confini ritrovandosi in un ambiente molteplice e spesso indefinito dove uno youtuber o un account Twitter o Instagram di un influencer (chi sul web fa tendenza, crea seguito) possono fare informazione e opinione in modo più incisivo, con più appeal, in spazi di fruizione più agevoli, giocando con tanti codici e linguaggi, in tempi contratti. Non si dimentichi, inoltre, che in questo vaso di pandora esploso è presente anche il lettore che diventa coautore (prosumer) e quindi, un nuovo, potenziale concorrente. Per sintetizzare: si è passati da un mercato definito nel quale a competere erano i giornali, le redazioni, gli stessi media a un spazio informativo allargato caratterizzato da una molteplicità di interlocutori, ognuno dei quali (può) fa(re) informazione. In un certo senso giornalista e lettore sono diventati concorrenti, ma possono altresì finire per mescolarsi ed evaporarsi da un punto di vista identitario. Lo dimostra anche la decostruzione dilagante di due grandezze costitutive dell’agire giornalistico: il tempo e lo spazio.

IL TEMPO DEL GIORNALISTA

Una delle caratteristiche della cultura mediale è lo sbilanciamento del tempo sul presente. Questo significa considerare la memoria come un optional oppure come un automatismo digitale che ricorda ogni cosa senza selezionare (c’è sempre qualcosa che ci ricorda, c’è sempre un archivio a disposizione, ci sono sempre fonti disponibili da cui attingere) e disinteressarsi di un ciò che sarà. È questo uno dei motivi che certamente condiziona e sbilancia l’impatto dell’informazione sull’oggi sacrificando la memoria e non curandosi del futuro. Questo scenario è evidente nella pratica giornalista quotidiana o periodica. Colui che lavora per un quotidiano scrive per un futuro prossimo. E quando quel futuro diventa presente racconta di un passato prossimo. Si pensi, altresì, a chi scrive per un quindicinale o per un mensile: il racconto del suo presente diventa, in un batter d’occhio, passato remoto. Sono effetti evidenti (e per giunta banali) di una contemporaneità mediale spinta sul presente, ovvero sulla soddisfazione immediata di qualunque bisogno. Compreso quello informativo che è ormai soddisfabile nell’immediato attraverso lo screen del nostro smartphone.

LO SPAZIO DEL GIORNALISTA

Tempo chiama spazio. L’antropologo francese Marc Augè spiega come oggi, tutti gli individui, devono confrontarsi con “una ideologia della globalità senza frontiere, che si manifesta nei più diversi campi dell’attività umana mondiale”. Secondo l’antropologo “sul pianeta si moltiplicano gli spazi di circolazione, di consumo, di comunicazione, rendendo visibile molto concretamente l’esistenza della rete”. Questo scenario da reale è diventato sempre più percepito. Ogni individuo, infatti, ha colto nell’abbattimento delle barriere spaziali un’opportunità di migliorare e ampliare il proprio lavoro. Si pensi al lavoro quotidiano del giornalista e alla scrittura di un pezzo. Il web (potenzialmente) ingloba e sostituisce tutto, annulla l’attesa, moltiplica il ventaglio di interlocutori, elimina (potenzialmente) l’errore, la mancanza, la lacuna, completa la conoscenza. Gli spazi si ampliano, si globalizzano, ma nello stesso diventano indistinti. Lo spazio redazionale classico sparisce, diventa nomade, viandante, itinerante. Alla comunicazione politica, ad esempio, sta sempre più stretto un corsivo, un editoriale su un giornale o un settimanale. Predilige spazi radicali, autopromozionali in cui non c’è il tempo dell’approfondimento, in cui la mediazione è sempre più sfumata, in cui i filtri sono sempre più aperti, in cui la costruzione dell’opinione è sempre più immediata. Si pensi a Twitter diventato in pochi anni (gli ultimi dati rilevano una flessione significativa) il luogo privilegiato della comunicazione politica perché asciutto, chiuso, propenso alla contrapposizione immediata, alle dinamiche del conflitto, all’emozione istantanea, alla reazione di pancia. Lo stesso vale per Instagram che risulta uno spazio crescente di influenza sociale che, attraverso cui un’esperienza foto-ritoccata e una conseguente prospettiva migliorata, determina consenso e gratificazione immediata.

LA LOGICA DEL DIGITAL FIRST

Decostruire spazi e tempi tradizionali incarnandoli in pratiche e formati giornalistici orientati da quelli della Rete sembra l’imperativo funzionale. Lo fa già che nasce giornalista digitale. Lo iniziano a fare i media mainstream come i quotidiani o le redazioni televisive. Lo spiega bene Maurizio Molinari nell’ordine di servizio ai suoi giornalisti, diventato ormai un caso di scuola.

PER CONCLUDERE: VIZI PUBBLICI E VIRTÙ PRIVATE DELL’INFORMAZIONE

Un vecchio adagio popolare recita così: “Fai come il prete dice, ma non come il prete fa”

La conclusione di questo contributo parte proprio dall’incoerenza dilagante di un universo informativo che risulta caotico e turbolento alla luce del presente digitale. Un giornalismo che spesso predica bene ma che può razzolare male, cedendo alle tentazioni di un consenso prêt-à-porter, di contenuti snackable e acchiappaclick. Alla luce di questo scenario, il giornalismo all’arsenico e vecchi merletti, del tempo che fu, delle macro redazioni alla Quarto (giornali) e Quinto Potere (la televisione), difficilmente potrà tornare. Si tratterà di casi isolati, a tempo determinato, legati al finanziatore di turno o all’iniziativa personale di gruppi di giornalisti. Lo spiega in modo illuminante l’economista Julia Cagè quando auspica (per scongiurare la morte dei media informativi) a nuovi modelli di governance e di finanziamento, tali da consentire ai mezzi di informazione di evitare di diventare preda di miliardari in cerca di potere. La studiosa francese propone per i media un nuovo modello associativo, una organizzazione no profit a metà strada tra una fondazione e una società per azioni. Solo così – spiega – si potrà garantire indipendenza, ci si potrà svincolare dal sistema degli aiuti di stato, si potrà conferire un potere decisionale ai “lettori, agli ascoltatori, ai telespettatori, ai giornalisti, garantendo una riappropriazione democratica dell’informazione per chi la fa e per chi la consuma. Non manipolata da chi vuole fare opinione. Non manipolata da chi detiene un capitale sufficiente per influenzare i nostri voti e le nostre decisioni”.

Il cambiamento però, oltre che strutturale, riguarda in primis la forma mentis giornalistica. È necessario ristabilire priorità e punti fermi della professione sfatando anzitutto quel mito che vede il passaggio al digitale come l’unico tentativo di svolta, la soluzione olistica dei problemi. Questo approccio è, per certi aspetti, limitante e non tiene conto della naturalizzazione (e normalizzazione) che riguarda anche il rapporto tra informazione e società: “l’aspetto più evidente del vivere contemporaneo è la fine dei dispositivi mediali che aveva caratterizzato la modernità»12. Oggi, infatti, non è più possibile stabilire con chiarezza cosa è mediale e cosa non lo è, né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo. […] I media sono ovunque. L’evoluzione del giornalismo è l’esempio perfetto di questo cambio di paradigma epico che si fonda su tre concetti bene espressi dal semiologo dell’Università Cattolica: naturalizzazione, soggettivazione e socializzazione. Si pensi a come le pratiche giornalistiche siano sempre più connaturate alle nostre esistenze quotidiane ed incentrate su uno sguardo soggettivo, su un punto di vista “ipersonale”13 e sempre più condivise e socializzate con altri. L’informazione oggi è anche questo: un infinito processo di notiziabilità dell’esistente, nel quale ogni fatto è potenzialmente raccontabile, indipendentemente dal suo valore di notizia. Un meccanismo che prescinde sempre più spesso dalle norme deontologiche per riaffermarsi in modo imperscrutabile, inintercettabile. Prenderne coscienza uscendo dai labirinti dell’autoreferenzialità è il primo passo per non deturpare la bellezza di una professione che fa del racconto autentico il suo fondamento più robusto.

I rischi sono di questa mancata comprensione sono molteplici. Se ne individuano tre principali sintetizzati in altrettanti passaggi.

  1. Da esclusivi ad esclusi
  2. Da identitari a identici
  3. Da opinion leader (e maker) a opionion slave

Il giornalismo è sempre stato un mestiere elitario. Chi deteneva le redini dell’informazione ha da sempre goduto di privilegi a diversi livelli. Il tesserino è sempre stato una sorta di passe-partout sociale. Oggi questa esclusività rischia di disperdersi nel disordine digitale e di trasformarsi in esclusione. Diretta conseguenza della potenziale esclusione è la perdita dell’identità di un mestiere considerato “eletto”. Il giornalista ha sempre avuto una connotazione identitaria ben evidente, esercitando un potere rilevante a livello sociale, distinguendosi per i suoi ruoli e le sue funzioni e differenziandosi per i temi trattati. Oggi gli spazi digitali rischiano di renderlo indistinto, incapace di caratterizzarsi rispetto a ciò che gli somiglia sempre più. Nello stesso tempo, la restrizione delle garanzie contrattuali ed economiche riducono in modo esponenziale la sua libertà di espressione indebolendo altresì la sua capacità generativa, la sua curiosità individuale e la sua propensione all’originalità e all’approfondimento. Rischio reale è ritrovarsi giornalisti in serie piegati alla schiavitù dell’audience, al numero di copie vendute (sempre meno, purtroppo) e ai click, like e visualizzazioni. E un escluso e un unknow (senza identità) non può che ridursi a diventare schiavo: dell’opinione dominante, della vulgata pseudo-rivoluzionaria, del capopopolo di turno, del contenuto più scioccante, di una estetica immorale e di tutto ciò che può dare linfa vitale al suo prodotto editoriale, mentendolo in vita forse, ma svuotandolo della sua capacità di creare opinione. Il legame tra informazione e società di gioca su queste minacce che possono diventare, però, anche sfide e opportunità importanti. Essere uomini, giornalisti, professionisti mediali significa anzitutto intercettare il latente, l’incerto, gli assiomi della contemporaneità. Significa ristabilire un legame equilibrato con le grandezze sociali più importanti come lo spazio, il tempo e l’identità. E anche condividere pratiche culturali ad hoc fondamentali per agire giornalisticamente in modo efficace ed efficiente. Non è un’operazione facile. L’umanità è per definizione instabile, tende all’autocompiacimento, alla distrazione, alla stanchezza. Per questo anche chi fa informazione deve essere protagonista di un percorso educativo. Che non fa riferimento alle mere competenze giornalistiche (le cosiddette “basi del mestiere”) ma a una graduale presa di coscienza delle proprie “qualità superiori” (Pier Cesare Rivoltella le chiama “virtù del digitale”) adottando costumi esistenziali come l’etica della professione, il gusto per la libertà di opinione, l’intelligenza dell’approfondimento, la ricerca della verità e la sua successiva affermazione. Sono queste le basi per un giornalismo che abbandoni il suo ruolo novecentesco di “powerful media” per vestire quello di “service media” (media in the service of). Soltanto così questo nobile mestiere (il giornalista della Gazzetta dello sport Luigi Garlando lo definisce “il mestiere più bello del mondo”, nonostante per alcuni sia sempre meglio che lavorare) potrà scongiurare l’estinzione e (ri)diventare una professione dotata di saggezza, ovvero di quella capacità di trovare soluzioni pratiche, creative, appropriate al contesto ed emotivamente soddisfacenti a problemi umani complessi. In conclusione, per ristabilire un sano impatto dell’informazione sulla società la strada da percorrere è quella della costruzione di una “digital journalism skillness”, ovvero di ciò che Ryzard Kapuscinski, parlando del proprio mestiere, chiamava il “Pianeta della Grande Occasione”: un’occasione non incondizionata, ma alla portata solo di coloro che prendono il proprio compito sul serio, dimostrando automaticamente di prendere sul serio se stessi. Un mondo che se, da un lato, offre molto, dall’altro chiede anche molto e dove cercare facili scorciatoie significa spesso non arrivare da nessuna parte.

Giornalismo come costruttore di pace – Paolo Ruffini

PAOLO RUFFINI – Prefetto del Dicastero vaticano per la Comunicazione

Il tema che mi è stato affidato è in che modo il giornalismo può costruire oppure, al contrario, non costruire, una cultura di pace, nel senso più ampio di questo termine. Se guardiamo anche soltanto il tema delle guerre, ci sono 400 guerre più o meno nel mondo, 378 erano nel 2018 e credo che già questo dato basti a dirci quanto possa essere importante un giornalismo costruttore di pace in un tempo che, al contrario, è sempre più tentato della radicalizzazione, che viene dalla semplificazione e dalla voglia di correre subito alla conclusione, senza avere la pazienza della comprensione. Come afferma Johan Galtung, sociologo e matematico norvegese, fondatore del Peace Research Institute, che per tanti anni ha contribuito ad una trasformazione non violenta dei conflitti: “Sembriamo come genere umano, come esseri umani, essere giunti al punto di essere noi stessi i nostri peggiori nemici, maggior causa di morte e di ferimento da violenza e guerra, eppure spesso ci riferiamo a noi stessi come intelligenti, in cerca di qualcosa di altrettanto intelligente”. Studiando i quotidiani norvegesi del 1960 per capire come essi davano le notizie Galtung arrivò a quattro conclusioni: che per finire sui media le notizie devono essere negative; devono evocare la guerra, la violenza; devono essere rivolte all’esterno; e deve esserci qualcuno a cui dare la colpa, colpa che, aspetto non meno importante, deve spesso riguardare altri, altri Paesi, Paesi importanti, personaggi importanti di Paesi importanti. Per cui, se un evento corrisponde a uno o a tutti di questi quattro elementi, allora è più facile che diventi notizia.

Sono passati sessant’anni da allora, e certo l’Italia non è la Norvegia, ma sicuramente c’è, c’era e c’è, nella teoria di Galtung un fondo di verità, che l’era dei social in qualche modo sta ingigantendo. È conveniente infatti spesso costruirsi un nemico, è grande tentazione quella di semplificare, è costante l’uso di un linguaggio guerresco sui media e sui social. Vivevamo allora e viviamo ancora un tempo che ricerca, anzi costruisce, incessantemente capri espiatori per ridurre tutto o quasi tutto a un dualismo feroce, amico/nemico, pollice-pro/pollice-verso. Questo è un tempo che costruisce identità fondate sulla negazione dell’altro e che le costruisce anche attraverso i media, un tempo che cerca di convincerci fraudolentemente che l’unica alternativa a disposizione sia quella fra la negazione di noi stessi e la negazione degli altri. Nella globalizzazione frammentata in cui siamo immersi sono allora anche, certo non solo, ma anche i mezzi di comunicazione, e sono le reti social il crogiolo dove prendono forma e si formano le nostre identità in divenire, dove si forma una cultura di pace o una cultura dello scontro.

Vorremmo tutti poter dare e poter avere risposte semplici e anche semplicistiche, vorremmo tutti sentirci rassicurati dal fatto che di risposta ce n’è una sola, che non ci sono alternative, che non c’è da scegliere, ma purtroppo non è così. Le occasioni come questa servono a risvegliare i significati di quello che siamo, di quello che facciamo. Prendiamo allora la cosiddetta guerra contro la pandemia: a mio avviso è proprio per l’incapacità anche dei media e soprattutto dei social media di seguire la via lunga e difficile della comprensione e per la voglia di cedere alla prima suggestione, alla soluzione che ci viene venduta a più buon mercato, che rischiamo di trasformare la guerra contro la pandemia in una guerra di tutti contro tutti. Per Johan Galtung tutto inizia proprio dell’educazione dei giornalisti – e oggi dovremmo dire anche di tutti quelli che fanno comunicazione anche sui social, anche se giornalisti non sono, quindi di tutti i comunicatori- l’educazione a un giornalismo di pace. Scriveva: “Può essere diviso in due: giornalismo di pace negativo, che cerca di trovare soluzioni a conflitti al fine di ridurre la violenza; e giornalismo di pace positivo, che vuole esplorare la possibilità di una maggiore cooperazione positiva. In altre parole, il primo si concentra su un aspetto negativo e il secondo su quello positivo. Detto così si potrebbe pensare che ci sia una formula, un algoritmo, per il giornalismo costruttore di pace, ma anche in questo caso la realtà è più complessa, non c’è una regola, non c’è una formula, però può esserci un metodo, può chiamarsi giornalismo dialogico, giornalismo costruttivo, giornalismo della pace.

Ci sono tante iniziative di questo tipo, anche papa Francesco ne ha parlato in uno dei suoi messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: “La verità ci farà liberi, fake news e giornalismo di pace”. In ogni caso si tratta di un giornalismo fondato sul dovere del distacco, del dubbio, della critica, della verifica, sulla differenza fra il prendere parte e il partito preso, un giornalismo nutrito di un uso responsabile delle parole (anche questo è stato detto molto meglio di come dirò io). Che uso facciamo delle parole nel racconto di quel che siamo, di quel che facciamo, di come viviamo, nella costruzione cioè della nostra storia, che uso ne facciamo? Non è che ci succede che inseguendo un uso sbagliato delle parole, la storia stessa ci scappi di mano, diventi sguaiata, diventi violenta, si scriva quasi da sola? Le parole sono alla base della nostra comunicazione, per questo è bene che siano quelle e quelle giuste sono quelle che aiutano a capire.

Quanti titoli di giornale o quanti tweet evocano linguaggi di guerra, linguaggi di odio, per semplificare e accorrere a soluzioni che non sono quelle vere. Si, dunque, è vero, tocca anche ai mezzi di comunicazione ricostruire l’unità della famiglia umana, tocca anche ai mezzi di comunicazione e occorre una grandissima cautela di fronte al rischio di alimentare una narrazione fondata sul meccanismo amico-nemico che finisce per far sparire ogni forma di minimo comun denominatore, ogni forma di dialogo. Occorre comprendere che solo le false notizie, le false interpretazioni della realtà, le parole usate come pietre o come alimento per i tanti pregiudizi, gli incubatori di quel fanatismo che annienta ogni libertà. Un giornalismo costruttore di pace può contribuire a eliminare la falsa necessità della polemica, a sottrarre l’identità dall’obbligo di avere un nemico, può contribuire a svelare quanto sia falso il dilemma della scelta fra negare se stessi e negare gli altri, può custodire e tramandare i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fraternità umana, può educare al coraggio necessario per accettare l’alterità.

Una seconda riflessione che si può fare riguardo al giornalismo costruttore di pace riguarda la selezione delle notizie. Si potrebbe obiettare: allora il giornalismo di pace deve evitare il racconto della guerra, deve evitare il racconto del male? È chiaro che la risposta non può essere questa, non ha senso girarsi dall’altra parte. Il vero problema non è se raccontare, ma come raccontare. Non si può raccontare un mondo angelicato, non saremmo credibili, non si può pensare in nome del giornalismo di pace di non raccontare le guerre, di non raccontare le storie non buone. Il problema è il come, però, non il se. Le storie non buone sono le storie raccontate male, sono le storie che non cercano la verità, ma la manipolano, sono le storie che non svelano la menzogna, ma la usano.

Quando ero un giovanissimo giornalista, un vecchio collega insegnandomi come si facevano i titoli, mi disse che dovevo abituarmi a non scartare mai un titolo accattivante per essere fedele alla verità dei fatti. Un po’ scherzava, un po’ no, e in ogni caso non mi ha mai convinto. Non mi ci sono mai abituato né da giornalista, né da fruitore dei media. Ho sempre pensato che i titoli accattivanti sono titoli falsi, sono titoli cattivi, appunto accattivanti, ci portano fuori strada. Penso sia questo quello che ci dice, per esempio, il Papa nel suo ultimo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, dedicato proprio al tema del racconto: “Le storie non buone non sono quelle che indagano il male per combatterlo, sono quelle che tessono di male il racconto stesso e così facendo logorano e spezzano i fili fragili della convivenza”. Come scrive Italo Calvino nelle “Città invisibili”: “Inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno, è quel che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme, ma due modi ci sono per non soffrirne: il primo riesce facile a molti, accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più; il secondo è rischioso, esige attenzione e apprendimento continui, cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno, inferno non è, e farlo durare e dagli spazio”. Ecco, in questo dargli spazio, in questo non diventare parte dell’inferno, è il ruolo del giornalismo di pace, io direi è il ruolo del giornalismo, ed è il ruolo dei giornalisti, dei giornalisti professionisti in particolare.

Un’altra riflessione che vorrei fare riguarda il rapporto fra pace e sicurezza, a proposito delle guerre, della pace e del costruir la pace.  Qui prendo in prestito le parole di Dietrich Bonhoeffer, per provare a capovolgere un sillogismo troppo facile, secondo il quale la pace dipende dalla sicurezza. Davvero è così? Non proprio, non sempre almeno. La pace si coniuga con la giustizia oltre che con la sicurezza, che non sempre è giusta, e certo non lo è quando riduce l’altro, a prescindere, a un nemico da cui difendersi. Cito dunque Bonhoeffer “Come si crea la pace? Con un sistema di trattati politici, mediante il denaro o addirittura mediante un riarmo pacifico generale con lo scopo di assicurare la pace? No, attraverso nessuna di queste cose e questo per un unico motivo, perché si confondono sempre pace e sicurezza, ma la pace va osata, mai e poi mai può essere assicurata, la pace è il contrario della sicurezza. Esigere sicurezza significa essere diffidenti e a sua volta la diffidenza genera la guerra”. Ecco, un altro elemento di riflessione a proposito del modo in cui intendiamo la comunicazione, riguarda l’obbligo per ogni buon giornalista di non vedere le cose da un unico punto di vista, l’obbligo di porsi dubbi, in questo caso di distinguere tra la sicurezza giusta e quella ingiusta.

La quarta riflessione che voglio condividere riguarda la rete, nel tempo della interconnessione dei social, del passaggio della società della comunicazione alla società della conversazione, dobbiamo stare attenti a non trasformare la rete in quel che essa per sua natura non è, non necessariamente almeno, un luogo dove più ci si addentra più si perde la propria unicità e la propria identità personale e anche l’orientamento, la capacità di distinguere fra vero e falso, coerente e incoerente, rimanendo intrappolati in un gioco in cui finisce ogni relazione vera. Le reti sociali sono diventate giornalismo sociale, dove appunto si fondano anche le nostre identità, le nostre conoscenze, le nostre memorie, le nostre scelte; da un lato ci permettono di essere in ogni luogo e in ogni tempo, e dall’altro il modo in cui ci avvolgono, virtuale, disincarnato, rischia di ridurre tutto ad un dualismo feroce, a quel dualismo amico-nemico che appunto non costruisce un giornalismo di pace, ma costruisce un giornalismo di rancori, una identità fondata sulla negazione dell’altro. Da un lato distruggono ogni alibi, dall’altro costruiscono alibi perfetti e spacciano opinioni per verità, inseguendo fantasmi che costruiscono in maniera instancabile. Da un lato riscattano le periferie dalla loro marginalità, nella rete non c’è centro e non c’è periferia, e ogni nodo è il centro, dall’altro rischiano di distruggere il mondo reale per sostituirlo con un luogo dove lo spazio e il tempo sono annullati, dove la radicalizzazione violenta diventa una tentazione facile, strumento potente e terribile, capace di fornire una figura a chiunque, ma anche di produrre maggioranze feroci e minoranze fanatiche, capace di unire ma anche di scavare divisioni profonde, trasparente ma anche opaco, custode della verità ma anche della menzogna.

Dunque la sfida del giornalismo costruttore di pace è esattamente qui, nella capacità di essere misura, metro, parametro, di fronte a tutto questo, di recuperare capacità di visione e di condivisione. Ho detto che non ci sono formule matematiche, è una questione di metodo, e ci sono tutti gli errori da evitare, non bisognerebbe mai decontestualizzare, non bisognerebbe mai cadere nella tentazione di semplificare, non bisognerebbe mai accontentarsi del paradigma del capro espiatorio. Bisognerebbe non cedere mai alla dittatura dell’istantaneità, controllando il riflesso mediante la riflessione. Perdonatemi dunque se concludo questo mio breve intervento con le parole di Papa Francesco ai giornalisti, quando ha ricevuto i corrispondenti alla stampa estera, il 18 maggio dell’anno scorso: “Vi esorto, dunque, a operare secondo verità e giustizia affinché la comunicazione sia davvero strumento per costruire e non per distruggere, per incontrarsi e non per scontrarsi, per dialogare e non per monologare, per orientare non per disorientare, per capirsi e non per fraintendersi, per camminare in pace e non per seminare odio, per dare voce a chi non ha voce e non per fare da megafono a chi urla più forte”.

 

Fake news e gestione delle fonti: la posta in gioco non solo per l’informazione scientifica – Vincenzo Morgante

VINCENZO MORGANTE – Direttore TV2000

È davvero un privilegio e anche una gioia poter essere ancora una volta qui per un premio che in quest’anno particolare assume valore e significato notevoli. Ritrovarci nel nome di Alessandra a discutere su temi fondamentali per il nostro mestiere ma anche per la vita civile, per la convivenza democratica, lo considero importante. Sentiamo tutti il condizionamento che la pandemia, anche sul versante della informazione e del confronto, in qualche modo sta imponendo. Grazie alla tecnologia che in questo momento ci ha aiutato, una tecnologia virtuosa, siamo ancora una volta qui, a distanza di un anno, a celebrare l’impegno, la bellezza di Alessandra, ma anche il valore di una informazione corretta che faccia comunicazione sociale, e che faccia, anche da privati, del servizio pubblico.

Fino a qualche anno fa, quando si parlava di fake news – termine inglese di recente introduzione, noi le notizie false le chiamavamo “bufale” – la maggior parte del mondo dell’informazione, dei comunicatori, di noi, in qualche modo snobbava il problema. Si credeva che questo fenomeno fosse legato quasi esclusivamente ai social in una forma goliardica, tutto veniva ridotto in una dimensione scherzosa. Invece sappiamo, e lo stiamo provando quotidianamente, che con le fake news c’è poco da scherzare, i danni e i rischi sono davvero incalcolabili, soprattutto perché colpiscono soggetti in stato di povertà culturale, soggetti che non hanno strumenti adeguati per chiedersi e verificare se quella notizia sia vera o meno. Recenti ricerche su questo fenomeno dicono che il problema ormai ha assunto dimensioni globali, senza confini. Colpisce che molte fake news prendano le mosse da informazioni vere, autentiche, che poi vengono distorte, manipolate, veicolate, per scopi che nulla hanno a che fare con l’informazione.

Alcune risultanze cliniche dicono – è avvenuto durante la prima ondata della pandemia – che i bambini vengono meno contagiati rispetto agli adulti e con sintomi meno gravi? Questo non significa che nessun bambino sarà contagiato. Ma scrivere e dire, come invece è avvenuto, che i bambini non rischiano di essere contagiati cambia completamente il senso della realtà.

Come giornalisti siamo tutti chiamati, ancora una volta, a fare un’autocritica, dura e pesante. Siamo tutti chiamati a porci delle domande. Come mai le fake news, le bufale, le polpette avvelenate, si diffondono e in modo così rapido? E qual è il ruolo dei media di fronte alle fake news? Come ci possiamo difendere, come comunicatori ma anche come utenti dell’informazione, dalle notizie false? Il terreno è paludoso perché entra in campo il tema della verosimiglianza. Le notizie false sono così ben costruite, camuffate che è facile caderci dentro.

Le fake news, le bufale, sono diventate un problema serio, un problema reale, perché incidono pesantemente sull’opinione pubblica quindi sulle scelte concrete che i cittadini devono fare nella loro vita di comunità, nella loro vita sociale, ma anche nella loro vita privata e anche nella espressione della partecipazione democratica. Lo ricordiamo tutti: durante la campagna elettorale che portò all’elezione del presidente degli Usa Trump molto si discusse, politicamente, sulla capacità dei social di influenzare milioni di persone. Certo, prendersela con un solo social, seppure tra i più influenti, sarebbe riduttivo, direi anche di moda… Ma fu un problema che si pose.

Le fake news spesso hanno un padre e una madre, non nascono per caso e riguardano un po’ tutti: social, giornali, cittadini, politica. Come ne usciamo? Certamente con un lavoro scrupoloso, con la competenza, con il controllo rigoroso delle fonti, con l’approfondimento, con lo studio. Dobbiamo ricordare a tutti – sappiamo che questo è anche un seminario di formazione – che essere giornalisti, esercitare il mestiere di giornalismo, comporta sacrificio, impegno, studio. Bisogna mettere da parte l’ansia di dare sempre tutto, e subito. Il fattore tempo non può essere una scusante. Non si può sorvolare sulle verifiche. Oggi, spesso, una notizia che viene messa in circuito da uno sconosciuto sui social diventa notizia per una testata che mette da parte la sua autorevolezza, mette a rischio la propria storia pur di “stare sulla notizia”, dico tra virgolette, pur di “essere sul pezzo”. Bene, un mio vecchio maestro ripeteva spesso a me e ai miei colleghi, quando eravamo giovani, “meglio prendere un buco che dare una notizia non verificata”. Oggi invece anche per le modalità diverse di diffusione del flusso informativo, è una rincorsa e nella rincorsa troppo spesso una notizia viene data senza verificare da dove arriva, “da dove viene viene”, come si dice.

Nella deregolamentazione dell’accesso alla professione, nella delocalizzazione, a volte esagerata, del lavoro giornalistico che riduce ai minimi termini il contatto, il confronto tra i giornalisti scriventi, gli inviati, per non parlare dei collaboratori, e i responsabili in redazione, trova sempre meno momenti e luoghi per realizzarsi ed essere proficuo.

La rete oggi ha una grande funzione, mette in contatto, fa circolare informazioni, permette lo scambio di opinioni e di immagini; però, nel suo lato oscuro, propala contenuti costruiti apposta per seminare disinformazione, per non parlare di quando semina contrasti e dissemina odio.

Oggi questo problema è conosciuto da tutti i professionisti della comunicazione e del web ma fino a non molti anni orsono esperti, addetti ai lavori, professionisti, comunicatori, sostenevano che il tema fake news non era un problema degno di particolare attenzione. Il problema vero, che deve tutti coinvolgerci e in qualche modo preoccuparci, non è certo lo studente che pubblica una notizia falsa online, a volte una bolla che poi si sgonfia. Il problema è che la disinformazione o l’informazione pilotata attraverso fake news rischia di diventare sistema. Ci sono, lo sappiamo, organizzazioni che hanno prodotto milioni di informazioni false, con vere e proprie legioni di programmatori e giornalisti che hanno fatto una falsa propaganda. Una volta messe in giro, le fake news sono difficili da fermare ed è impossibile bloccarne gli effetti perversi e dannosi. Secondo una ricerca di Mbc News, le fake news più diffuse dello scorso anno riguardano la salute e il cibo. Hanno spopolato suoi social a colpi di post e articoli acchiappa-click le seguenti notizie: una gang di medici cattivissimi nasconde all’unanimità la cura per il cancro; le bacche sono più efficaci dei vaccini; mangiare i noodles, gli spaghetti asiatici, può uccidere.

La ricerca ha evidenziato che quest’anno i primi 50 articoli hanno raccolto oltre 12 milioni di condivisioni, commenti e reazioni; circa un terzo erano articoli virali che promuovevano cure, mai provate, sui tumori. Tra le bufale sulla salute più virali del 2019, riporta sempre Mbc News, c’è la presunta cospirazione di medici e lobby che starebbero nascondendo una cura miracolosa contro il cancro, e altre notizie sempre riguardo al mondo dell’informazione medico-scientifica: un vaccino sperimentale per il tumore al seno, apparso un articolo su Florida Fox, è stato condiviso, pensate, da 1 milione e 800 mila utenti. Insomma c’è una speculazione sulle fake news in materia di salute, che trova sui social linfa vitale e consente di guadagnare con “bufale” che non hanno nessun fondamento scientifico. Per non parlare della pubblicità su integratori miracolosi. Si è speculato anche sulla popolarità della medicina naturale.  “Lo zenzero è 10.000 volte più efficace nell’uccidere il cancro rispetto alla chemio”, recitava il titolo di un articolo che avuto oltre 800 mila condivisioni. Notizie false e bufale riguardano ancora i vaccini, un’arma fondamentale per proteggerci da tante malattie, considerata sicura dalla comunità medico-scientifica, ma che molti gruppi anti-vax ben finanziati e senza informazione medica e esperienza hanno preso come bersaglio con una campagna di disinformazione: i vaccini sono accusati di procurare gravi danni, fino alla morte.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha lanciato l’allarme infodemia, cioè la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni che rendono davvero difficile orientarsi per la difficoltà di individuare fonti affidabili. Le fake news e la disinformazione, sostiene l’Oms, stanno infatti ostacolando in qualche modo la risposta alla pandemia e per questo viene proposto di usare le stesse armi che si usano contro il virus: prevenire, intercettare, rispondere. La disinformazione, aggiunge l’Oms, mette a rischio vita e salute, mina la fiducia nella scienza, nelle istituzioni e sta ostacolando, appunto, la risposta al Coronavirus. Per affrontare quello che l’Oms definisce “una sfida globale”, è stato lanciato anche un Sos a Google per assicurarsi che le persone che cercano informazioni sul Coronavirus vedano quelle veicolate dall’OMS in testa alle notizie ottenute con i motori di ricerca.

L’impatto della disinformazione sulla salute è ovviamente enorme. Può apparire scontato, ma desidero ripeterlo, ci vorrebbero più controlli su quello che viene postato sui social e nel web. Si dovrebbe trovare, lo dico a bassa voce, anche un vaccino per le fake news ma al momento gli strumenti più efficaci, ribadisco, sono il lavoro scrupoloso, la competenza, il controllo rigoroso delle fonti, l’approfondimento, lo studio. Direi che occorre un approccio “francescano”, segnato da una caratteristica, da un valore che dovrebbe accomunare tutti i professionisti, in questo caso i professionisti dell’informazione: quello della umiltà, l’umiltà di approccio al mestiere.

Una testata affidabile è una testata che fa comunicazione nel sociale, che fa servizio pubblico, è una testata che non perde lettori, telespettatori, ascoltatori o followers. Insomma una testata affidabile che deve camminare di pari passo con la responsabilità di ciascuno di noi, di quanti sono chiamati a vivere il privilegio di fare un mestiere veramente bello, prezioso, utile, ma che tratta materiale molto pericoloso, e quindi che chiede grande competenza, grande responsabilità.

Abilità e disabilità, tra vicinanza, libertà e diritti – Fabio Zavattaro

FABIO ZAVATTARO – Direttore scientifico del Master di Giornalismo della LUMSA Master School

Siamo giornalisti che vivono di parole; ho apprezzato molto Vincenzo Morgante che ha parlato di un “lavoro francescano”, cioè di quella umiltà che deve accompagnare il nostro mestiere. Umiltà che significa anche capacità di sapersi correggere quando pronunciamo frasi non utili, quando pronunciamo parole che possono colpire. Vero, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola è scritto nella nostra Costituzione: nell’articolo 21 abbiamo quella strada che è pronta per noi, ma che prevede degli ostacoli nella sua realizzazione perché non possiamo offendere, non possiamo dire cose false. L’Ordine è stato molto valido nel prevedere Carte che in qualche modo hanno cercato di regolare tutto, di regolare i temi, le attenzioni, di regolare soprattutto la capacità di raccontare senza offendere, senza colpire le persone. Quindi, giornali e giornalisti, abbiamo un compito molto molto molto, e lo ripeto tre volte, importante perché in un tempo in cui regnano le fake news abbiamo l’obbligo e il compito di fare chiarezza, di raccontare senza per questo stravolgere, senza modificare i concetti. Allora il tema di rivolgerci alle persone che vivono una difficoltà, che sono ferite nel corpo, in qualche modo ha bisogno di un’attenzione in più. Noi invece – ma lo facciamo “senza cattiveria”, passatemi questo termine- quante volte impropriamente usiamo la parola “handicappato”, quante volte ci rivolgiamo a una persona che magari ci ha tagliato la strada, che ci impedisce di andare avanti apostrofandola in questo modo? Perché in fondo siamo vittime di un abuso di certi termini. Dobbiamo invece riscoprire il senso della parola vera, riscoprire il concetto di raccontare con verità senza occultare le notizie. A me piace sempre ricordare -un po’ perchè la mia attività è stata legata all’attività dei Pontefici- un passaggio di Benedetto XVI che quando si è recato nel 2009 a Piazza di Spagna per la devozione alla statua della Madonna, disse: “Nella città vivono – o sopravvivono – persone invisibili, che ogni tanto balzano in prima pagina o sui teleschermi, e vengono sfruttate fino all’ultimo, finché la notizia e l’immagine attirano l’attenzione. E’ un meccanismo perverso, al quale purtroppo si stenta a resistere. La città prima nasconde e poi espone al pubblico. Senza pietà, o con una falsa pietà. C’è invece in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto”.

Noi giornalisti, spesso, quando affrontiamo questi temi cadiamo in questo meccanismo e non siamo capaci di renderci in grado di raccontare al meglio queste cose. Allora proviamo a riflettere un po’ su quello che si può e non si può dire. Non ci rendiamo conto che a volte feriamo le persone con le nostre parole, usiamo linguaggi che invece dovremmo preoccuparci di non utilizzare. E allora, proviamo a capire un po’ quali sono questi termini, secondo me, giusti da utilizzare nei nostri racconti. Ecco, direi che il termine “handicappato” sarebbe meglio non utilizzarlo perché in realtà questo significa subito spostare l’attenzione su un altro termine, “disabile”, come sostantivo che in qualche modo nasconde la persona, e il disabile già di per sé è un titolo, non è l’uomo che ha una disabilità.

Poi perché disabilità? È una persona che vive di una malattia, di una incapacità e disabilità-abilità, come vedete, sempre sono termini legati a una capacità di essere, una capacità di manifestarsi verso l’altro, eppure queste persone spesso hanno una abilità diversa, hanno una abilità maggiore rispetto a quella che le cosiddette “persone normali” a volte hanno, e questo secondo me è uno degli aspetti da tenere presente. Quindi attenzione anche alle parole che a volte vengono utilizzate, “anormale”, “anormalità”: bruttissimi termini.  La persona va considerata come tale, come persona, non è un qualcosa da offrire così, come diceva papa Benedetto, alle cronache per poi rimetterla subito nel dimenticatoio. Può capitare a tutti, non è difficile che magari una situazione si possa ripetere anche per le nostre persone; quindi innanzitutto il rispetto dell’altro. Grande attenzione anche alle immagini perché le immagini possono aiutare a far capire, ma possono anche offendere e colpire le persone.

Il nostro è un mestiere bellissimo, è un mestiere che ci permette di raccontare e di essere accanto alle persone. “Essere accanto alle persone” significa essere capaci di accompagnare ciò che noi vediamo senza creare cortocircuiti, senza ferire, senza far provare una pietà. La vecchia espressione è che la lacrima crea audience (parlo della televisione, ovviamente, ma non solo della televisione), è qualcosa che dobbiamo accantonare; cerchiamo di essere rispettosi della persona. Se noi possiamo raccontare senza ferire, se possiamo raccontare senza dover colpire nella capacità del singolo di essere accanto a noi, se noi riusciamo a ragionare in termini corretti utilizzando parole giuste, utilizzando termini che ci consentono di essere rispettosi e di rispettare anche la verità della comunicazione cominciamo un grande-grande-grande lavoro.

Dobbiamo avere una capacità più grande di essere persone che raccontano e che rispettano. Non si dicono mezze verità, ma si dicono verità e le verità hanno le parole giuste, hanno termini giusti, hanno quel modo di essere incisivi senza per questo ferire. Mi ricordo il mio primo direttore, di una piccola agenzia, che aveva un’abitudine molto bella: conservare dietro la sua sedia alcuni cestini in cui c’erano i nomi dei suoi collaboratori, dei suoi giornalisti. In quel cestino finivano gli articoli in cui avevamo male compreso cosa ci era stato chiesto, ma anche quelli in cui utilizzavamo termini che non andavano utilizzati. E quando sprecavamo le parole, quel direttore amava ricordarci alcune parole del Carducci: “l’uomo che per dire una cosa di cinque parole ne usa venti, lo ritengo capace di male azioni”.

Ecco, noi dovremmo essere capaci di raccontare in cinque parole, senza ferire, senza compromettere la notizia, ma soprattutto rispettando l’altro che ci è accanto e che ci accompagna in questo nostro breve pellegrinaggio su questa terra.